GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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ESTERI - page 32

Dalla Corte Penale Internazionale mandato d’arresto per Putin

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ROMA (ITALPRESS) – La Corte Penale Internazionale dell’Aja ha emesso un mandato d’arresto contro il presidente russo Vladimir Putin e la commissaria russa per i diritti dei bambini Maria Alekseyevna Lvova-Belova.
Putin e Lvova-Belova vengono accusati “del crimine di guerra di deportazione illegale e di trasferimento illegale di bambini dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa”, spiega la Corte Penale Internazionale in una nota. I crimini sarebbero stati commessi nel territorio occupato ucraino almeno a partire dal 24 febbraio 2022. “Vi sono fondati motivi per ritenere che Putin abbia la responsabilità penale individuale per i suddetti crimini, per aver commesso gli atti direttamente, insieme ad altri e/o per interposta persona”, spiega la Corte, che fa riferimento allo Statuto di Roma.
“La Russia non è parte dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale e non ha alcun obbligo nei suoi confronti. La Russia non collabora con questo organismo” e i mandati d’arresto provenienti dalla Corte Penale Internazionale “saranno legalmente nulle per noi”, ha replicato Maria Zacharova, portavoce del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.

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Ucraina, Zelensky “Stiamo facendo di tutto per vincere la guerra”

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KIEV (UCRAINA) (ITALPRESS) – “La forza della nostra difesa è la forza del nostro popolo. Gli ucraini diventano guerrieri in un momento cruciale: combattono, non cercano ciò che non gli appartiene, fanno tutto per riconquistare il proprio. Vinceremo questa guerra. Stiamo facendo di tutto per questo”. Così su Telegram il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
“Ci sosteniamo a vicenda – aggiunge -. Rafforziamo lo Stato. Uniamo il mondo per il bene della nostra vittoria, con le azioni di tutti coloro che stanno combattendo per l’Ucraina, che stanno combattendo per il nostro Paese e per i loro fratelli d’armi, che stanno facendo di tutto per non lasciare che il nemico prenda la nostra terra”.

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Ucraina, Xi Jinping parlerà con Zelensky

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PECHINO (ITALPRESS/MNA) – Il presidente cinese, Xi Jinping, avrebbe intenzione di parlare con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, per la prima volta dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Lo riferisce il Wall Street Journal, citando fonti al corrente del dossier. Il colloquio tra Xi e Zelensky e’ probabile che avvenga al termine della visita a Mosca di Xi. Il presidente cinese è stato rieletto venerdi’ scorso all’unanimita’ per un terzo mandato presidenziale dai quasi tremila delegati dell’Assemblea Nazionale del Popolo, l’organo legislativo del parlamento cinese. L’iniziativa s’inserirebbe nel quadro degli sforzi di Pechino per assumere un ruolo piu’ attivo sulla questione ucraina.
Il 24 febbraio Pechino ha pubblicato un documento in 12 punti che propone il cessate il fuoco tra Russia e Ucraina.
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Naufragio al largo della Libia, 17 migranti salvati e 30 dispersi

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ROMA (ITALPRESS) – Diciassette migranti sono stati salvati e altri 30 risultano dispersi in seguito a un naufragio avvenuto nella zona SAR libica.
In una nota la Guardia Costiera italiana riferisce come si sono svolti i fatti. “Nella notte dell’11 marzo, “Watch the Med – Alarm Phone” segnalava al Centro Nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma, a quello maltese e a quello libico una barca con a bordo 47 migranti, in area SAR libica a circa 100 miglia dalle coste libiche. Successivamente l’unità veniva avvistata dal velivolo “ONG Seabird 2” il quale procedeva ad inviare una chiamata di soccorso e contattava il mercantile “BASILIS L” che confermava di dirigere verso il barchino. Tutte le informazioni venivano fornite anche alle Autorità libiche e maltesi. Il mercantile “BASILIS L” comunicava di avere il barchino a vista, fermo alla deriva, e di avere difficoltà a soccorrerli a causa delle avverse condimeteo in zona. Le Autorità libiche, competenti per le attività di ricerca e soccorso in quell’area, a causa della mancanza di disponibilità di assetti navali, chiedevano il supporto, così come previsto dalle Convenzioni Internazionali sul soccorso in mare, del Centro Nazionale di coordinamento del soccorso marittimo di Roma che, su richiesta delle autorità libiche, inviava nell’immediatezza, un messaggio satellitare di emergenza a tutte le navi in transito – prosegue la nota -. La Centrale Operativa della Guardia Costiera di Roma, oltre al mercantile “BASILIS L” che rimaneva vicino al barchino, inviava 3 mercantili presenti in zona verso il natante in difficoltà. Le operazioni di trasbordo dei migranti iniziavano alle prime luci dell’alba da parte di uno dei 4 mercantili che avevano raggiunto il barchino in difficoltà. Durante le operazioni di soccorso da parte della motonave “FROLAND”, il barchino durante il trasbordo dei migranti si capovolgeva: 17 persone venivano soccorse e recuperate dalla nave mentre risultavano dispersi circa 30 migranti. Due dei migranti recuperati a bordo dalla motonave “FROLAND” che dirige verso l’Italia, necessitano di assistenza medica e, pertanto, il mercantile dirigerà dapprima verso Malta per lo sbarco delle due persone per le urgenti cure mediche. Le operazioni di ricerca dei migranti dispersi continuano con l’ausilio dei mercantili presenti in zona, con ulteriori due mercantili che stanno raggiungendo l’area di ricerca e col sorvolo di due assetti aerei Frontex. L’intervento di soccorso è avvenuto al di fuori dell’area di responsabilità SAR italiana registrando l’inattività degli altri Centri Nazionali di coordinamento e soccorso marittimo interessati per area”, conclude la Guardia Costiera.

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Papa “Lavoriamo per la pace contro l’indifferenza”

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ROMA (ITALPRESS) – “La pace nella martoriata Ucraina e in tutti gli altri Paesi che soffrono l’orrore della guerra che è sempre una sconfitta per tutti, per tutti”. E’ l’augurio del Papa per il futuro, in un’intervista al sito del Fatto Quotidiano, nei 10 anni del suo pontificato.
“La guerra è assurda e crudele – aggiunge – È un’azienda che non conosce crisi nemmeno durante la pandemia: la fabbrica delle armi. Lavorare per la pace significa non investire in queste fabbriche di morte. Mi fa soffrire pensare che se non si facessero armi per un anno, finirebbe la fame nel mondo perché quella delle armi è l’industria più grande del pianeta. L’8 dicembre scorso, in piazza di Spagna, ho pianto pensando al dramma che sta vivendo il popolo ucraino. È trascorso già più di un anno dall’inizio della guerra in Ucraina”.
“A febbraio – aggiunge – sono stato in Africa, nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan, e ho visto gli orrori dei conflitti in quei due Paesi con le mutilazioni delle persone. Una cosa che mi fa soffrire molto è la globalizzazione dell’indifferenza, girare la faccia dall’altra parte e dire: “A me che importa? Non mi interessa! Non è un mio problema!””.
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Ucraina, Papa “Vado a Kiev ma a condizione di andare anche a Mosca”

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ROMA (ITALPRESS) – “Sono disposto ad andare a Kiev. Voglio andare a Kiev. Ma a condizione di andare a Mosca. Vado in entrambi i posti o in nessuno dei due”. Così Papa Francesco in un’intervista al giornale argentino La Nacion. “La guerra ha una serie di regole etiche. Non mi piace parlare di etica della guerra perchè è una contraddizione nel termine. Quando vedo questo, che non solo vengono uccisi professionisti della guerra, ma ci sono vittime innocenti, mi preoccupa molto. E lì non so se questo è genocidio o no, devono studiarlo, la gente deve definirlo bene, ma non è certo un’etica della guerra a cui siamo abituati”, ha detto il Pontefice alla domanda se la guerra in Ucraina si possa definire come genocidio. Il Santo Padre ha poi ricordato che “il secondo giorno dell’invasione sono andato in ambasciata, mi sono offerto di andarci. Il ministro Lavrov mi ha ringraziato, ne avrebbero tenuto conto ma per il momento ovviamente no. Ora, in questo momento, il Vaticano sta facendo qualcosa di più diplomatico per vedere se si può ottenere qualcosa”.
Papa Francesco sottolinea quindi come da parte del Vaticano c’è “non un piano di pace, c’è un servizio di pace. Un desiderio di servire la pace”. Sulla possibilità di andare a Mosca, dice: “Non sto dicendo che sia possibile. Non è impossibile. Speriamo di poterlo fare. Non c’è nessuna promessa, niente. Non ho chiuso quella porta. La guerra mi fa male, voglio dirlo. La guerra mi fa male”, chiosa il Papa.
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Il manifesto di politica estera di Pechino

 

Mentre in Occidente ci auto illudiamo con una narrativa di “regime” unidirezionale e ingannevole che il conflitto ucraino rappresenti l’atto estremo dell’eterna lotta tra il Bene (noi Occidentali) e il Male (il resto del mondo che non la pensa come noi), non ci accorgiamo che la Cina sta ponendo le basi ideologiche del suo concetto di Ordine Mondiale in chiave dichiaratamente antioccidentale.

A un anno esatto di distanza dalla dichiarazione congiunta russo-cinese dove veniva affermato un nuovo paradigma del concetto di democrazia – uno Stato è democratico se si sente democratico – e una differente declinazione dell’idea dei diritti dell’individuo – finiscono dove inizia l’interesse dello Stato – la Cina ha emanato un nuovo documento particolarmente interessante.

Il Ministro degli Esteri della Repubblica Cinese ha infatti emesso un documento intitolato “L’egemonia degli Stati Uniti e i suoi pericoli”.

Se il titolo non fosse abbastanza esplicito da chiarire il contenuto, basta dare un’occhiata all’indice: dopo una breve, ma significativa, introduzione dove gli Stati Uniti sono presentati come il peggiore dei mali, seguono cinque capitoli dedicati a tutti quei settori dove gli USA impongono la loro egemonia politica, militare, economica, tecnologica, culturale.

Il fine che il documento si propone di conseguire è rappresentato dalle ultime due righe dell’introduzione dove si cita testualmente:

This report, by presenting the relevant facts seeks to expose the U.S. abuse of hegemony in the political, military, economic, finance, technological and cultural fields, and to draw greater international attention to the perils of the U.S. practises to world peace and stability and the well-being of all people.

Un incipit che farebbe sembrare dei principianti l’Imperatore Palpatine o il Signore dei Sith, i super cattivi galattici che impersonano il male assoluto nella saga di Star Wars.

Nel corso dei vari capitoli il documento spiega come gli USA impongano la loro egemonia nei differenti settori a detrimento del bene universale e della pace dei popoli.

Senza andare nel particolare di quelle che sono, in realtà, dichiarazioni di una propaganda che affonda le sue radici in una retorica derivante da una visione social-comunista da Libretto Rosso, è opportuno notare come alcuni argomenti, quasi accennanti casualmente, definiscano, invece, la visione cinese che propaganda un nuovo ordine mondiale.

Il primo di questi concetti riguarda l’accusa di aver fabbricato una falsa narrativa della “democrazia verso l’autoritarismo” per incitare all’allontanamento, alla divisione, alla rivalità e al confronto tra le varie nazioni. Anche l’idea USA della creazione di un “Summit per la democrazia” è un’iniziativa che viene aspramente criticata e accusata di causare la divisione nel mondo.

Il secondo concetto riguarda la sfera economico finanziaria, dove viene messo in discussione il sistema che regola la struttura globale ritenuto esclusivamente vantaggioso per il binomio USA – Occidente (probabilmente ci si dimentica due terzi del debito USA sono finanziati dalla Cina).

Il terzo elemento evidenzia un certo fastidio per il sistema di alleanze che gli USA hanno impostato nella gestione della loro visione diplomatico – strategica, percepito da Pechino come elemento coercitivo e destabilizzante perché escludente la sua partecipazione.

Il paragrafo finale delle conclusioni contiene una affermazione programmatica che invita le grandi nazioni a prendere l’iniziativa nel perseguire un Nuovo Modello di relazioni tra stato e stato basato sul dialogo e la partnership, e non il confronto e le alleanze; rimarca, inoltre, la posizione contraria della Cina verso qualsiasi forma di egemonia e di potere politico e sottolinea il rigetto di qualsiasi interferenza negli affari interni di altri paesi (concetti cari a Pechino per la risoluzione dei vari problemi come il Tibet, la minoranza uigura, Taiwan).

Non poteva mancare, a conclusione del tutto, l’invito agli USA a fare autocritica conducendo una seria introspezione al fine di esaminare con visione critica le loro malefatte, rifuggire dal loro comportamento arrogante e pregiudizievole e smettere di adottare comportamenti egemonici, prepotenti e bullizzanti!!!!!!  (“The United States must conduct serious soul-searching. It must critically examine what it has done, let go of its arrogance and prejudice, and quit its hegemonic, domineering and bullying practises”).

L’importanza del documento non risiede nelle affermazioni che vengono fatte o nella demonizzazione del comportamento degli Stati Uniti, ma nell’aspetto concettuale che esso si propone di realizzare.

Gli USA e i loro valori culturali (che in definitiva sono ampiamente condivisi dall’Occidente per intero) sono un pericolo per il mondo e contro questa visione la Cina si erge a baluardo proponendo un Nuovo Ordine.

Questo Nuovo Ordine non si basa sulla condivisione di quei concetti culturali e sociali che hanno ispirato l’Occidente come la democrazia, la libertà individuale, la libertà di espressione, la libertà di commercio e di movimento, ma un sistema dove tutti questi valori si fermano quando un superiore interesse da parte di un concetto di Stato astratto e imposto si inserisce e prevarica su tutto.

E la Cina, con estrema scaltrezza non propone sé stessa come elemento guida di questo nuovo sistema di relazioni internazionali, ma elenca i mali che il sistema occidentale, tiranneggiato dagli USA, comporta e produce, proponendolo all’attenzione del resto del mondo come il pericolo da cui è necessario e fondamentale difendersi.

Il problema da affrontare non è costituito dalla retorica da Libretto Rosso che la propaganda cinese usa o la veridicità o meno delle sue affermazioni, ma risiede nei concetti politici che la Cina intende veicolare per impostare una nuova concezione di valori culturali.

Il sistema proposto è un chiaro e mirato attacco contro gli USA che sono individuati come l’ostacolo principale verso un’egemonia cinese, mentre considera l’Europa come un sistema in completo decadimento, disunito e privo di peso politico, la cui insignificante importanza globale non costituisce alcun problema per l’affermazione del sistema cinese.

La forza di questa linea strategica che la Cina persegue da tempo, deriva, non tanto dall’efficacia della critica dei valori occidentali e dalla proposta di valori culturali alternativi, ma dalla nostra mancanza di visione globale del contesto internazionale, persi come siamo nella nostra piccola gabbia dorata dalla quale non vogliamo uscire.

Purtroppo, l’Europa non ha una visione strategica globale ma si dibatte tra vecchi rancori (il deuteragonismo franco-tedesco nel voler dominare l’Unione Europea), l’incapacità di uscire dal passato (la crisi ucraina ne è un esempio), la tendenza a rimanere ancorati a un orizzonte limitato (assenza della percezione del lato Sud dell’Europa e del mondo) e questo la porta a essere vulnerabile nei confronti dell’evoluzione che caratterizza lo scenario internazionale.

L’Occidente europeo si è fatto trascinare in un conflitto provocato da interessi che non gli appartengono e alimentato da vecchi rancori, dove una retorica ormai appartenente al passato vagheggia vittorie impossibili e imposizione di trattati di Versailles irrealistici (l’Ucraina sta vincendo su Facebook ma perde sul terreno!!!!!!). La nostra società annaspa in una crisi sempre più profonda e l’unica reazione è quella di chiudere gli occhi di fronte alla realtà di un mondo in evoluzione e illuderci che la Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative), la rete 5G a basso costo, i finanziamenti ai progetti universitari, l’acquisto di proprietà ed esercizi commerciali da parte cinese, siano esclusivamente l’espressione di una benevola e innocua aspirazione a fare parte del nostro sistema e di interesse a condividere i nostri valori.

Non è così, e il documento del Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese lo conferma senza ombra di dubbio.

Se non vogliamo essere schiacciati nel confronto per il Nuovo Ordine ed essere ridimensionati allo stato di colonie, dobbiamo aver il coraggio di guardare al di là del nostro piccolo orizzonte, utilizzare le capacità che l’Unione Europea ci consente di avere, se agiamo come un unico, solido, coeso organismo (lasciando perdere idiozie concettuali come i Paesi Frugali, quelli Virtuosi, i Quattro di Visegard e via dicendo) e quelle intrinseche che un istituzione di difesa collettiva e di integrazione come la NATO rende possibili, se trasforma la sua accezione di club in funzione anti Russia e si trasforma in un elemento di sviluppo dei valori e dei concetti condivisi da un Occidente unito e in grado di svolgere un ruolo da protagonista nel contesto internazionale.

I valori culturali che hanno disegnano e formato la nostra società sono senz’altro validi e meritano di essere proposti come un modello da seguire e da adottare e non dobbiamo vergognarci di sostenerli e di veicolarli, ma dobbiamo farlo senza l’arroganza che siano gli unici e che possano essere imposti come merce di scambio. Il modo migliore è dimostrare che la nostra società Occidentale non è decadente, immorale e pericolosa come la Cina la descrive ma, invece, rappresenta un modello i cui valori sono degni di essere accettati e condivisi anche dagli altri.

L’alternativa è di iniziare a imparare a usare le bacchette per mangiare!

Ceterum censeo Carthaginem esse delendam!

I rapporti tra Iran e Azerbaigian sono sempre stati caratterizzati da un’accesa rivalità dovuta sia alla politica di potenza regionale di Teheran sia alle aspirazioni della minoranza azera in Iran di entrare a far parte di un Azerbaigian allargato.

Recentemente questo stato di tensione si è acuito a seguito dell’interesse iraniano di svolgere un ruolo più attivo nel decennale conflitto che investe il Nagorno-Karabakh. Il supporto che Teheran ha offerto all’Armenia ha scatenato una reazione decisa da parte di Baku che ha elevato il livello del confronto portando a un dispiegamento di forze da parte di entrambi i due Paesi lungo la linea di confine.

Tuttavia, se la possibilità di arrivare a uno scontro militare appare abbastanza remota, è opportuno sottolineare quali siano le premesse di questa nuova mossa di Teheran.

In primo luogo, questa escalation nei rapporti con Baku conferma la strategia iraniana di svolgere un ruolo importante, non solo nella regione mediorientale ma anche nel vicino Caucaso, nell’ottica di rafforzare e consolidare il ruolo di potenza regionale che rappresenta l’obiettivo del regime di Teheran.

In secondo luogo, dimostra che le recenti ondate di proteste interne, ritenute spesso in Occidente la premessa di una primavera iraniana, non hanno minimamente scalfitto la linea di politica estera perseguita dall’Iran, confermando la solidità dell’impianto statale del Paese.

Da ultimo, ma sicuramente di non minore rilevanza, questi recenti sviluppi dimostrano che è in atto un processo di ridefinizione degli equilibri regionali come conseguenza dell’andamento del conflitto in Ucraina.

La Russia pur continuando a essere la potenza protagonista dell’area caucasico-mediorientale, deve accettare come contropartita del supporto diretto o indiretto ricevuto nella gestione della crisi ucraina che sia la Turchia sia l’Iran possano svolgere un ruolo più incisivo nel perseguimento dei loro obiettivi geostrategici locali.

In tale scenario, infatti, Ankara cerca di risolvere i problemi legati alla componente militare del PKK che viene percepita come una minaccia costante alla sua integrità territoriale mentre Teheran vorrebbe eliminare la possibilità dell’espansione azera, considerata un probabile stimolo per pericolosi secessionismi nell’area settentrionale dell’Iran.

Ma il fattore più importante da valutare è che, lontano dall’essersi cristallizzato sulla crisi ucraina, lo scenario geopolitico mondiale continua a essere in continua evoluzione e che l’Occidente non lo percepisce.

Quanto avviene nella regione del Caucaso meridionale dovrebbe stimolare nell’Occidente una riflessione a più ampio spettro sulla gestione della crisi ucraina.

Ogni giorno la narrative che i nostri media ci propongono è quella dell’impossibilità di pervenire alla fine della crisi se non attraverso la sconfitta totale della Russia, il suo annichilimento politico, l’imposizione di un cambio di regime che, nella visione utopico-ipocrita dell’Occidente, preconizza la nascita di un sistema democratico, liberale, sottomesso e privo di identità nazionale.

La resa incondizionata, il ritiro oltre gli Urali, l’assunzione della piena e unica responsabilità del conflitto, il pagamento dei danni di guerra, e delle spese di ricostruzione, una nuova Norimberga, sono dei vaneggiamenti politici che fanno riferimento a un passato che non si ripeterà, semplicemente perché le condizioni e la situazione sono profondamente differenti.

Se questa narrative mediatica ha sviluppato un suo appeal che ha consentito di giustificare quelle che sono state in realtà le conseguenze di una valutazione geopolitica sbagliata, l’evoluzione del contesto mondiale ci deve spingere a un approccio al problema più pragmatico, più realista e meno intriso di morale spicciola, dove è imperativo porre fine a questa proxy war continuazione inutile della Guerra Fredda, con il conseguimento di una soluzione diplomatica bilanciata a beneficio di tutti: l’Ucraina, la Russia, l’Europa, gli Stati Uniti.

La domanda che i media occidentali dovrebbero fare è la seguente: è politicamente indispensabile che la crisi si concluda solo con una resa incondizionata e totale della Russia, come il mantra mediatico di Zelensky richiede in ogni apparizione pubblica del leader maximo dell’Ucraina, oppure non appare più opportuno (e diplomaticamente più corretto) ricercare una soluzione mediata che possa porre un termine al conflitto?

Fermo restando l’inaccettabilità del ricorso alla forza come risoluzione delle problematiche internazionali, siamo proprio sicuri che quanto sta avvenendo nell’Europa dell’Est sia solo il risultato di un delirio zarista – imperialista da parte di Putin e, magari, non sia invece la conseguenza di azioni politico-diplomatiche poco avvedute e di errori di valutazione geopolitica?

La visione dell’Occidente, nel corso della sua storia, è stata caratterizzata da un proselitismo con vocazione missionaria volta a propagandare i propri valori, sia nel campo religioso sia in quello culturale, nella convinzione assoluta che essi fossero non solo i migliori ma, anche, gli unici ai quali il genere umano dovesse aspirare per realizzarsi compiutamente.

Il punto non è quello di disquisire se il nostro sistema di valori sia realmente universale o meno, ma quello di chiederci se quello che noi, Occidente, consideriamo vero sia, realmente, ciò che gli altri percepiscono come realtà.

Nella fattispecie, il nostro costrutto culturale e sociale ci ha portato a identificare il significato che noi diamo ad alcuni valori come assioma assoluto e universale, senza il minimo dubbio che questo significato sia condiviso anche dagli altri a cui noi imponiamo, come assoluti, questi valori.

Inoltre, i traumi profondi che il XX secolo ha inciso nella nostra coscienza collettiva ci hanno spinto a identificare la soluzione ideale per sconfiggere i nostri incubi nella creazione di alcune istituzioni internazionali, che, permeate di buoni propositi e basate sui valori culturali di una società occidentale ritenuta universale, ci hanno consentito di sviluppare una specie di eden in un mondo dove il conseguimento del benessere e della pace sono ancora obiettivi di un orizzonte lontano.

L’ONU, l’Unione Europea, la NATO sono l’espressione diretta della nostra aspirazione a una serenità e una sicurezza universale e incondizionata. Chiunque metta in discussione questo assioma deve essere condannato e va fermato per il bene universale.

Anche qui il punto non riguarda la valutazione di merito di queste organizzazioni, ma concerne il fatto di come queste organizzazioni siano viste e percepite da chi non ne fa parte.

Nel particolare, sia l’Unione Europea sia, soprattutto, la NATO sono considerate con sospetto e con paura dalla Russia nella cui matrice storico-culturale queste organizzazioni sono identificate come una minaccia alla propria indipendenza e alla propria sicurezza.

Quando la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha fatto emergere il problema del vuoto di potere nell’Est Europa la soluzione adottata è stata quella di inglobare i Paesi dell’Europa Orientale nella NATO e nell’Unione Europea nel tentativo di assimilare le nuove democrazie al contesto occidentale.

Ma questo processo non ha tenuto conto della percezione russa del problema, che si è manifestata nel momento in cui l’ombra della UE e della NATO si è proiettata sull’Ucraina (vertice NATO di Bucarest del 2008: Bucharest Summit Declaration – Issued by the Heads of State and Government participating in the meeting of the North Atlantic Council in Bucharest on 3 April 2008 – para 23. “NATO welcomes Ukraine’s and Georgia’s Euro-Atlantic aspirations for membership in NATO. We agreed today that these countries will become members of NATO…..”).

L’alternanza di governi pro Russia e pro USA che hanno caratterizzato la scena ucraina nel presente millennio, la difficoltà dei vari movimenti nazionalisti di accettare minoranze linguistico culturali di matrice russa in Ucraina e il tentativo di usare il Paese per conseguire obiettivi geostrategici da ambo le parti (Occidente e Russia) hanno avuto come conseguenza diretta l’acuirsi della crisi e il suo trasformarsi in conflitto.

Questo, nella narrativa occidentale, ha poi assunto la fisionomia di una crociata delle forze del bene dove un’Ucraina democratica e liberale difende la democrazia e la libertà dell’Europa minacciate dall’autocratismo zarista.

Purtroppo, la realtà è differente. La crisi ucraina è la conseguenza del concatenarsi di una serie di azioni diplomatico-politiche e di valutazioni geostrategiche superficiali, effettuate da parte di entrambe le parti in causa, dove gli interessi in gioco sono di carattere economico (l’Ucraina è un territorio enormemente ricco) e geopolitico (la percezione della sicurezza dei confini e il ruolo sulla scena mondiale). La Russia non attenta alla nostra democrazia e alla nostra libertà, che sono valori troppo radicati nella nostra cultura per essere minacciati da questa crisi.

La reale minaccia all’Europa siamo noi stessi quando abiuriamo ai nostri valori, quando non vogliamo vedere oltre la superficie, quando non ammettiamo una prospettiva differente dalla nostra, quando neghiamo la realtà perché mette in risalto i nostri errori. Questo è quello che sta accadendo nella gestione della crisi ucraina, vogliamo eliminare l’effetto perché non accettiamo la causa: Delenda Mosca!

La realpolitik di Ankara

Mentre la narrativa occidentale dà per imminente la vittoria dell’Ucraina nel revival all’inverso della Grande Guerra Patriottica e per scontata la scomparsa della Russia dalla scena internazionale, Mosca continua a svolgere un ruolo di protagonista negli altri scenari geopolitici che l’Occidente sembra aver dimenticato.

Recentemente, infatti, l’attività diplomatica del Cremlino ha conseguito un notevole successo nell’area mediorientale aprendo nuovamente, dopo un decennio di stasi, un canale di comunicazione tra la Turchia e la Siria.

L’iniziativa preparata e condotta da Mosca, dopo una serie di incontri preliminari ad alto livello, ha portato a un incontro diretto tra Erdogan e Assad avvenuto a Mosca nello scorso dicembre. Come conseguenza dell’evento è stata stilata un’agenda di incontri a livello ministeriale, a cui oltre a Siria e Turchia parteciperanno anche Russia ed Emirati Arabi Uniti.

Per comprendere quali siano, quindi, le conseguenze dirette di questa azione diplomatica è necessario effettuare due differenti valutazioni.

La prima riguarda direttamente la Russia. Con il raggiungimento di questo successo Mosca ha ottenuto due risultati positivi contemporaneamente: con il primo ha ridotto le possibilità che gli attriti tra Ankara e Damasco, inerenti alle attività contro le People’s Protection Units (YPG)- la componente siriana del Turkish Kurdistan Workers’ Party (PKK)-, possano degenerare in un conflitto aperto che oltre a complicare, ulteriormente, la già intricata situazione siriana, metterebbe in pericolo il ruolo di potenza egemone che Mosca ha saputo conquistare nella regione.

Con il secondo, la Russia ha ribadito la sua abilità e, soprattutto, la volontà di svolgere il ruolo di grande potenza a livello globale, dimostrando che la crisi ucraina non ha effetti sulla sua capacità di proiezione geopolitica in altre aree del pianeta.

La seconda valutazione da fare è inerente alla Turchia. La disponibilità di Erdogan al riavvicinamento con Assad è motivata da considerazioni, prevalentemente, connesse agli sviluppi della politica interna della Turchia nell’immediato futuro: le elezioni presidenziali.

Spesso in Occidente i media hanno presentato la Turchia come un Paese retto da un regime autocratico, creando la convinzione che Erdogan sia un nuovo dispotico califfo con poteri illimitati, ma questa visione distorta non corrisponde, affatto, alla realtà politica del Paese.

La Turchia è uno stato democratico dove sia la percezione popolare dell’interesse nazionale, sia la possibilità di una opposizione politica strutturata e legalizzata sono ben presenti e dove il concetto di elezioni democratiche e libere è radicato e rispettato.

Non si può, certamente, negare che le pressioni di Mosca per pervenire al riavvicinamento siano state sicuramente efficaci, ma la spinta principale viene proprio dall’attenta valutazione politica che Erdogan ha fatto in merito all’appuntamento elettorale del maggio di quest’anno.

Un riavvicinamento alla Siria è visto dalla maggioranza dell’opinione pubblica turca come un fattore molto positivo, in quanto, nell’ottica della visione comune, questo elemento potrebbe risolvere i due problemi principali che preoccupano il mondo politico turco: la legittimazione delle aspirazioni di sicurezza dei confini meridionali del Paese con l’eliminazione della minaccia delle aspirazioni curde (sconfitta dello YPG) e il ritorno dei profughi siriani la cui permanenza rappresenta motivo di forti contrasti e preoccupazione sia a livello interno sia internazionale.

Sebbene Erdogan ritenga tale ipotesi di soluzione priva delle possibilità di un reale successo, due elementi hanno spinto il leader turco ad accettare la mediazione di Mosca.

Innanzi tutto, l’andamento sfavorevole dell’operazione Claw and Sword, bloccata nella decisiva fase terrestre dall’intransigenza russa e da un rafforzamento militare siriano nell’area interessata e, successivamente il rafforzarsi dell’opposizione interna che vede nella normalizzazione dei rapporti con Damasco la possibilità di collaborare con la Siria per giungere ad una soluzione delle due problematiche.

Il cambio di paradigma diplomatico effettuato dalla leadership di Ankara, oltre che dalle questioni di politica interna connesse alle elezioni, è stato condizionato, in modo piuttosto deciso, da altri due fattori internazionali.

Il primo riguarda la mancanza di un reale supporto nella questione dei rifugiati da parte dell’Unione Europea, che dopo un atteggiamento ambiguo e poco disponibile (sempre dettato dalla visione limitata, egocentrica e miope da parte dei rappresentanti del Nord Europa) ha adottato una strategia di chiusura e di rifiuto verso possibili forme di cooperazione con la Turchia. Di qui la necessità di impostare una politica per il ritorno in Siria dei rifugiati.

Il secondo aspetto è connesso alla incapacità USA di proporre una roadmap credibile e di impatto per la risoluzione del conflitto siriano. Il supporto alle forze dell’YPG e le sanzioni in atto contro il regime di Assad sottolineano l’incapacità dell’attuale Amministrazione USA di formulare una visione geostrategica della regione che tenga in considerazione sia le legittime preoccupazioni in termini di sicurezza della Turchia, sia la complessità di uno scenario delicato e articolato come quello mediorientale.

La mancanza di visione geopolitica europea e statunitense nella gestione degli sviluppi della crisi che coinvolge l’area turco-siriana ha contribuito notevolmente al successo della mediazione russa, concedendo a Mosca un doppio vantaggio: la possibilità di svolgere un ruolo importante rafforzando la sua leadership regionale; la capacità di aumentare l’attrazione nella propria orbita diplomatico-politica di Ankara allontanando sempre più la Turchia, non solo dall’Occidente, ma anche dall’Europa.

In conclusione, l’assenza di una vision chiara e condivisa degli obiettivi geopolitici e delle necessarie azioni geostrategiche da porre in atto, che affligge l’Occidente, ci ha portato a vivere una situazione paradossale.

Ci siamo lasciati condurre in una proxy war contro la Russia per dare soddisfazione prevalentemente a vecchi odi e rancori atavici, impegnandoci acriticamente a sostenere un Paese al quale non siamo direttamente legati né da un sistema di alleanze e neppure di unioni comuni, abbandonando invece, un Paese, la Turchia, che è membro della NATO (la stessa NATO che in un delirio di fantapolitica  difende a spada tratta un Paese non membro) e che è in lista d’attesa da trent’anni per entrare a far parte di quella Unione Europea snob e progressista che rimane legata al passato incapace di abbandonare la comfort zone della rivalsa contro la Russia.

Il risultato ultimo è che un elemento critico per il sistema di equilibrio della regione mediorientale si sta riallineando in un’orbita non occidentale, compromettendo le possibilità di Usa e Europa di svolgere un ruolo determinante nella gestione delle dinamiche regionali che sempre più dipendono dall’azione diplomatica della Russia, quell’arcinemico del nostro piccolo mondo europeo di cui con tanta determinazione l’Est europeo vuole la distruzione usando la NATO e l’UE come clava.

Il piccolo mondo antico dell’Occidente

Il protrarsi del conflitto in Ucraina ha determinato la necessità fondamentale, per entrambi i contendenti sul campo, di poter accedere a fonti integrative di rifornimenti di materiale bellico, al fine di poter supportare le proprie attività e di conseguire i propri obiettivi.

Gli USA e l’Europa, da lungo tempo, sono l’arsenale militare che alimenta le forze armate di Kiev, mentre la Russia, non essendo la produzione nazionale in condizione di fornire in numero sufficiente alcuni specifici assetti indispensabili alla condotta delle sue operazioni, è stata costretta a ricercare partner militari in grado di integrare le sue capacità.

Non è un mistero che questa disponibilità, nel settore particolare dei velivoli senza pilota, sia stata offerta con successo dall’Iran, il cui coinvolgimento nella fornitura di droni è andato sempre più sviluppandosi, rappresentando la fonte principale di approvvigionamento di Mosca.

Ma questa disponibilità non è stata, assolutamente, disinteressata e gratuita; infatti, adesso Teheran si sta muovendo per poter ricevere la sua controparte in termini strategici.

Il controvalore del contributo che l’Iran fornisce, come integrazione dello sforzo bellico della Russia, è rappresentato dalla richiesta di uno dei gioielli dell’industria aeronautica russa: il caccia da superiorità aerea Sukhoi 35 (Su-35)!

A tale proposito, infatti, sono in dirittura finale, da alcune settimane, le trattative atte a finalizzare la fornitura di alcune decine di aerei di questo tipo, come contropartita del supporto che la Russia sta ricevendo nel settore dei droni (e anche dei missili balistici).

La richiesta iraniana risulta essere in linea con la necessità di ammodernamento della componente aerea finalizzato, sia all’acquisizione di una più incisiva capacità di controllo dello spazio aereo, sia, anche, alla possibilità di alterare a proprio favore l’equilibrio militare dell’area.

Anche se l’acquisizione dei Su-35 da parte iraniana non stravolgerebbe drasticamente l’attuale equilibrio militare della regione, comunque, comporterebbe una serie di alterazioni significative al quadro di situazione.

In primo luogo, la capacità di effettuare un controllo dello spazio aereo più efficace, limitando eventuali interventi ostili, potrebbe stimolare, ulteriormente, Teheran verso il completamento del progetto nucleare, a discapito dell’azione di appeasement condotta dall’Occidente e ad onta delle possibili sanzioni che a livello internazionale potrebbero derivarne.

Secondariamente, l’acquisizione dei Su-35, dando luogo a una situazione di superiorità tecnologica iraniana, scatenerebbe una rincorsa agli armamenti da parte degli altri Paesi dell’area per riequilibrare la situazione, inducendo una ricerca di soluzioni in grado di contrastare tecnologicamente la minaccia, che, probabilmente, non sarebbero rivolte al mercato occidentale ma faciliterebbero l’ingresso della Cina come provider di sicurezza.

Infine, ma non di minore importanza, il consolidarsi incontrastato dell’asse Mosca-Teheran porrebbe ulteriori ombre sull’affidabilità dell’azione diplomatico-politica dell’Occidente considerata sempre più deficitaria a ricoprire un ruolo determinante per la stabilità dell’intera regione.

La probabile conclusione di un tale accordo, che sembra non essere compromesso da ostacoli particolari, ripropone un tema al quale l’Occidente, onnubilato dalla determinazione a evitare l’invasione dell’Europa da parte russa, sembra si sia disinteressato: la crescente mancanza di stabilità nell’area geopolitica mediorientale e la deriva verso un nuovo sistema di relazioni il cui perno è orientato verso l’Asia.

L’intensificarsi dei rapporti tra Russia e Iran, infatti, rappresenta un ulteriore azione diplomatica che sottolinea il consolidarsi di un assetto geopolitico decisamente ostile al sistema di relazioni adottato dall’Occidente nell’area, nei confronti del quale la diplomazia di USA ed Europa stenta a identificare un’alternativa di successo.

Deve essere sottolineato come la posizione dell’Iran risulti essere, ulteriormente, rafforzata da un tale accordo, che oltre a consentire un significativo miglioramento del suo arsenale militare, sancisce il ruolo del Paese come produttore ed esportatore di droni e missili balistici con capacità a livello mondiale.

Il pericolo maggiore è però rappresentato dalla possibilità che il perdurare della necessità strategica di Mosca di rifornimenti di assetti specifici (droni e missili) dia maggiore ampiezza alla disponibilità della Russia nell’offrire in contropartita altri sistemi all’Iran, consolidando un asse militare logistico dalle imprevedibili e pericolose conseguenze per la stabilità della regione mediorientale.

Teheran potrebbe, infatti, ottenere la cessione sia di sistemi missilistici anti-nave e anti-aerei, sia, soprattutto, chiedere di essere supportata nello sviluppo delle capacità tecnologiche necessarie a realizzare il sistema di propulsione per vettori intercontinentali.

Questo successivo, e nemmeno così ipotetico, sviluppo avrebbe delle conseguenze estremamente serie producendo un sensibile terremoto nei delicati equilibri geostrategici dell’area.

Purtroppo, l’assoluta mancanza, da parte dell’Occidente, di qualsiasi reazione verso l’acquisizione dei Su-35, così come l’assenza di misure, volte a impedire il rafforzarsi di un’intesa militare tra i due Paesi, viene interpretata dalla dirigenza iraniana come il segno del crescente decadimento delle capacità occidentali nella gestione, non solo della crisi ucraina ma, soprattutto dello spettro geopolitico globale. Tesi avvalorata dalla incapacità dell’Occidente nel porre in essere concrete azioni diplomatico-politiche che siano in grado di contrastare la sua perdita di rilevanza e la diminuzione delle sue capacità di interagire con successo nel contesto geopolitico del Medio Oriente.

Questa visione è, ulteriormente, suffragata dalla tiepida e inefficace reazione internazionale di condanna delle azioni repressive messe in atto dal regime di Teheran per contrastare l’ondata di proteste degli ultimi quattro mesi. A questo quadro, già di per sé preoccupante, va aggiunta la ormai acclarata impotenza del consesso internazionale nell’esercitare una qualsiasi forma di controllo per limitare l’ascesa iraniana verso l’acquisizione dello status di potenza nucleare.

In sintesi, l’Occidente, creando una narrativa semplice e di facile presa perché riconducibile a esperienze vissute in un passato non remoto (la minaccia dell’Orso Russo) si è rinchiuso in una gabbia geostrategica dalla quale ha escluso il resto del mondo, non volendo accettare che la crisi del modello neoliberale ha come conseguenza lo sviluppo di un nuovo ordine mondiale con nuovi differenti centri di potere.

L’ubiquità mediatica del leader ucraino (non ci si potrebbe stupire di una sua apparizione anche nel prossimo Festival di Sanremo) eletto acriticamente a paladino indiscusso della libertà e della democrazia del continente europeo minacciate dall’orda russa, ha nascosto alla nostra visione l’altra faccia delle relazioni internazionali, che continuano a seguire il loro corso e che costituiscono il palcoscenico nel quale i Paesi emergenti nel panorama geopolitico mondiale continuano a mettere in atto tutte le azioni mediante le quali intendono perseguire i propri obiettivi di strategia nazionale, per nulla intimoriti dalle roboanti, ma spesso prive di reale sostanza, dichiarazioni di principio degli USA, dell’Unione Europe e della NATO.

E l’avanzata sulla scena internazionale dell’Iran è proprio la conferma che i Paesi che non condividono i valori e la cultura librale hanno compreso le debolezze e i limiti politici dell’Occidente e li sfruttano a loro vantaggio!!!!!

Maurizio Iacono
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