GEOPOLITICA DEL MONDO MODERNO

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Redazione - page 310

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Il viaggio di EA nell’Europarlamento, tra sanzioni alla Russia e lotta ai monopoli

EUROPA di

Bruxelles – Sono giorni concitati per l’Europa. Una tempesta si sta abbattendo sull’Unione europea: la Gran Bretagna ha deciso il suo destino con un voto storico, rifiutando l’Ue, le sue istituzioni, i suoi politici. Brexit l’hanno chiamata, e pare aver cambiato le carte in gioco all’interno dell’Ue. Dopo il voto di venerdì, il distretto comunitario, con i palazzi di vetro che s’innalzano nel cuore pulsante della capitale belga, ha tremato. Ancora una volta. Ma si sa, l’apparenza inganna. Durante i giorni precedenti al voto, nei trafficati corridoi del Parlamento europeo la vita scorreva tranquilla. Non si avvertiva particolare tensione per il referendum di Londra. Le sedute, i lavori parlamentari, tutto è andato liscio.

europarlamento2I palazzi delle istituzioni comunitarie, che sovrastano Bruxelles, sono una città nella città. Ermeticamente chiusi all’interno di controlli serrati, risultano macchine burocratiche complesse da comprendere. “Per ambientarsi nei corridoi dell’Europarlamento, e per capire a pieno come funziona l’istituzione, ci voglio anni”, ci spiega Manuela Conte, addetto stampa del Partito popolare europeo.

E proprio tra i corridoi, del Parlamento europeo, nei giorni precedenti al referendum britannico, che abbiamo incontrato Stefano Maullu, europarlamentare di Forza Italia, aderente al Ppe. . “Credo che la fuoriuscita del Regno Unito faccia male a tutti.- ha spigato Maullu a European Affairs – E se la Bce è attrezzata per attenuare eventi di questo genere dal punto di vista finanziario, non lo è l’Unione europea nella sua interezza e quindi saranno necessari tempi molto lunghi per una definitiva uscita della Gran Bretagna dall’Ue”.

Il presunto monopolio di Tirrenia

maullu1Nelle settimane scorse l’On. Maullu ha depositato un’interrogazione rivolta alla Commissione europea, chiedendo di attivarsi contro atteggiamenti di abuso della posizione dominante sul mercato interno. Nello specifico, ha fatto riferimento al Gruppo Onorato che, già proprietario di Moby Lines, nel 2012 ha acquisito la totalità della Compagnia Tirrenia, diventando, secondo Maullu, la prima compagnia di navigazione italiana per le rotte nel Mediterraneo.

“Credo che il problema delle isole sia un problema enorme – ha spiegato l’europarlamentare – per quanto riguarda l’Italia. In questo caso il competitor da e per la Sardegna non esiste, perché esiste una compagnia che ha acquistato Tirrenia, ma che è anche proprietaria anche di un’altra società di navigazione. E, quindi, ad oggi abbiamo quasi un monopolio di fatto. Questo tema è stato affrontato anche dall’Authority italiana che ha già notificato la posizione di abuso di posizione dominante alla compagnia Onorato e di cui si aspetta di verificare l’esito della controversia. L’importanza di un mercato più effervescente emerge soprattutto nei mesi estivi come sottolinea Maullu durante i quali le poche corse e i costi alti penalizzano l’economia regionale. “E così si arriva ad una concezione quasi di blocco economico totale perché chi non ha le risorse economiche per poter entrare e uscire dalla Sardegna – dice l’On. Maullu – e si trova costretto ad affrontare un danno economico rilevante. Inoltre, tutto ciò determina un vantaggio per un armatore che, d’altro canto, ottiene un beneficio di una serie di contributi da parte dello Stato, dato che la Tirrenia è finanziata ancora con la vecchia legge.”

Fusione Wind-H3G

Non sono solo i trasporti a meritare l’attenzione della Comunità Europea ma anche le Telecomunicazioni che stanno affrontando in questi mesi una delle più importanti operazioni di acquisizione degli ultimi dieci anni, la fusione tra Wind del gruppo Russo Wimpelcom e H3G dei cinesi di Hutchinson Wampoa.

“Tutto ciò che diventa competizione, a patto che le regole siano rispettate, credo che debba essere visto con grande favore” – ha sottolineato Maullu – “ma se questo si traduce nella creazione di monopoli di mercato diventa un problema. Quello delle telecomunicazioni mi pare uno dei settori più vivaci, anche perché la tecnologia aiuta la comunicazione e il trasferimento di relazioni, competenze e dati. E quindi aiuta gli scambi a trecentosessanta gradi. “

La petizione contro le sanzioni a Mosca

Altro tema importante quello delle sanzioni che la Comunità Europea ha dimposto nei confronti della Russia e delle quali a Luglio il COREPER tornerà a discutere per una eventuale proroga ed è proprio su questo tema che abbiamo chiesto all’On. Maullu qual è la sua posizione.

“Io sono componente della delegazione Unione Europea- Russia – ha risposto il parlamentare europeo – e credo che le sanzioni siano un danno enorme per il nostro Paese che vive di export e di prodotti di nicchia. Da questo punto di vista le sanzioni ci hanno penalizzato in maniera incredibile a partire dal settore delle calzature fino al manifatturiero. Quelle contro la Russia sono sanzioni anacronistiche e soprattutto sono imposte dagli Stati Uniti e chi paga il peso di tutto ciò è non solo l’Unione Europea globalmente e anche l’Italia in particolare. “

 

Di Fabrizio Ciannamea

 

Nessun incontro tra Rivlin e Abbas, entrambi a Bruxelles

EUROPA di

Non c’è stato alcun incontro bilaterale tra il presidente israeliano Reuven Rivlin e quello dell’Autorità nazionale palestinese Mahmud Abbas. Entrambi i leader in visita ufficiale a Bruxelles per dialogare con i vertici Ue riguardo lo stallo del processo di pace in Terra Santa.

“Ero contento dell’iniziativa lanciata dai rappresentanti europei di fissare un incontro con il Presidente Abbas” – ha detto ieri Rivlin – “Che in queste stesse ore si trova come me a Bruxelles. Mi è dispiaciuto che abbia rifiutato. Non saremo in grado di costruire la fiducia tra le due parti se non iniziamo a parlarci in modo diretto”.

“Noi siamo favorevoli ad un accordo riguardo i due Stati. In questo momento, però, le circostanze geopolitiche per raggiungerlo non ci sono”, ha spigato il presidente israeliano, prendendo la parola nell’emiciclo dell’Europarlamento.

“No” ai nuovi negoziati di pace chiesti da Parigi

“Il tentativo della Francia di creare un tavolo negoziale non è la giusta soluzione. Cercare di trovare una soluzione permanente adesso è impossibile. Se la comunità internazionale vuole davvero diventare attrice costruttiva sui negoziati, dovrebbe cercare di creare più fiducia fra le due parti, creando i presupposti per i negoziati”.

 

Sicurezza ed investimenti

“Per creare i presupposti di pace è necessaria una leadership palestinese unica e forte. E, purtroppo, oggi al suo interno si cela anche Hamas. E con loro non possiamo dialogare – ha continuato Rivlin- Inoltre, è necessario che in Palestina si crei una infrastruttura economica stabile. E in questo è fondamentale il ruolo dell’Europa che dovrebbe investire di più in Giordania e Sammaria, in modo da aumentare l’occupazione palestinese e diminuire le differenze tra i nostri due popoli. Ritengo, che l’economia in Palestina si possa sviluppare anche con investimenti comuni tra israeliani e palestinesi attraverso joint venture, nel turismoe nelle energie rinnovabili”.

La questione dei confini

“Attualmente l’instabilità dei nostri confini non ci permette di essere completamente sicuri. Pensate ad Hezbollah. Lo stesso per quanto riguarda la Cisgiordania e la Sammaria. Noi stiamo facendo sforzi per la stabilità in questi territori, anche mettendo in gioco la nostra stessa sicurezza”.

La mancanza di fiducia degli uni con gli altri

“Bisogna considerare che esiste, tra israeliani e palestinesi, tra politici e popolazione, mancanza di fiducia. Eppure noi siamo favorevoli alla soluzione dei due Stati dal 1993 con l’accordo di Oslo, come abbiamo ribadito più volte nelle Knesset”.

Le condizioni per l’accordo

“Per noi è fondamentale la cooperazione con Egitto e Giordania. – ha concluso Rivlin – La comunità internazionale deve evitare qualsiasi attacco contro di noi. E’ necessario oggi trovare una soluzione per Gaza, dove 1 milione e mezzo di abitanti è sotto ricatto di Hamas. La pace si fa tra i leader, ma si esegue tra le popolazioni. Se l’Europa è interessata a tutto ciò dipende dalle vostre volontà”.

Di Fabrizio Ciannamea

 

 

 

Venezuela moves towards a revocatory referendum

Americas di

The economic, political and social crisis of Venezuela has worsened over the last few months. People’s exasperation about food shortages and an inflation rate that hit 180%, has reached the peak. The whole country is waiting for the democratic event that seems to give a chance to change the current situation: the revocatory referendum on the presidential mandate of Nicolás Maduro, which was promoted by the political opposition last April.

President Nicolás Maduro won the elections in April 2013, thanks to the wave of emotion caused by the death of Hugo Chávez, occurred on the 5th of March of the same year. Even though Chávez appointed Maduro as his ideal successor, he immediately showed less charisma than its predecessor. In 2013 Maduro won the presidential elections obtaining a 50,61% of the votes, while the opposition’s candidate Capriles Radonski obtained the 49,12% of the votes. However, from that moment Maduro’s consensus started deteriorating. The most significant evidence of that loss of consensus are the frequent protests organized by the opposition as well as the elections for the National Assembly that took place on the 6th of December. On that occasion the opposition united in the MUD (Mesa de Unidad Democrática) obtained 109 seats out of 167.

Venezuelan Constitution, which was adopted in 1999 during Chavez’s presidency, stipulates, under article 72, that any elective office may be revoked by a popular referendum, after half of its mandate has passed. For this reason, in April Venezuelan opposition presented at the National Electoral Council (CNE) a referendum request on the presidential mandate. According to Venezuelan law, the procedure to organize a revocatory referendum consists of 4 phases. The first requirement has already been met, it is the submission of the request to the CNE. The second one is the collection of the 1% of signatures of the total number of people registered in the electoral lists (197.978 signatures). The 10th of June the President of CNE, Tibisay Lucena, declared that the opposition presented more that 1 million and 900 thousand signatures, and that 605 thousand of those were considered invalid (the CNE affirmed that those signatures were repeated more than once or they referred to dead people). Nevertheless the opposition obtained that 1 million and 352 thousand signatures were validated by the CNE. This allowed the CNE to move on to the third phase that is going to take place from the 20th of June to the 26th of July. During the third part of the process, the opposition will be required to collect the 20% of signatures of citizens registered in the electoral lists for a minimum of approximately 3 million and 900 thousand signatures. After that, it will be possible to schedule the date of the revocatory referendum. Venezuelan citizens will be able to revoke Maduro’s mandate if at least the same number of people who voted for him in the elections of 2013 it is no longer supporting him.

Meanwhile, the tension is increasing as well as the concrete risk of confrontations between chavistas and the opposition supporters. For this reason, the CNE’s President called on all political forces to not to use violence, declaring that in the event of an incident the CNE will halt the referendum process.

The country’s instability is mainly caused by the reduction of oil price in the international market. In fact, Venezuela is deeply dependant on oil exports. According to OPEC, Venezuela possesses the major oil reserves in the world, and it is among the 10 major oil producers. However, the country has not been able to obtain great benefits from this resource. The opposite political factions are blaming each other for the alarming situation in the country. On the one hand the opposition argues that the crisis is due to the bad policies implemented by the Socialist Party, which has been ruling the country since 17 years. On the other hand the government blames the economic élites for halting the production of goods in order to destabilize the government and convince people to sustain a regime change. As regards this issue, Maduro usually affirms in his speeches that the Venezuelan élites are conspiring with the United States by organizing an “economic war” to overthrow the government. In addition to that, another phenomenon contributed to worsen the crisis, a drought called Niño. This phenomenon reduced the functioning of the hydroelectric plants in the country, which provide the country with roughly the 70% of the electricity needed. For this reason the government decided to impose energy saving measures, such as a reduction in the opening hours of public offices.

Venezuela’s priority is to achieve conciliation, to find a compromise for the collective wealth, to overcome the violent opposition between the two political factions and to adopt measures in order to address the fundamental problems of the country. These are the high crime rate, the huge inequality between social classes, the lack of good public services (education and healthcare) and the corruption. The creation of a more extended medium class, by an attenuation of economic, social and cultural differences among the population, would solve the first and the second problem as well as it would reduce the violent political environment. Moreover, a more equal distribution of wealth would determine an increase in the consumption and it would support the birth of new businesses, bolstering the economic recovery.

In conclusion, Maduro’s government has lost the support of the majority of the Venezuelan population. If the general discontent won’t have the possibility to be expressed through the revocatory referendum, there is a concrete risk of a turmoil similar to the one occurred in 1989 (the “Caracazo”). The opposition is likely to succeed in revoking Maduro’s mandate. In that case the opposition would retake the power after 17 years of socialist government. However, these years of violent confrontations will leave open wounds on the skin of Venezuelans that remain divided into two separate blocks. The real challenge will be to cure this wound, which has been opened since a long time.

Elena Saroni

Il Venezuela verso il referedum revocatorio

AMERICHE di

La crisi economica, politica e sociale del Venezuela si è acuita considerevolmente negli ultimi mesi. L’esasperazione della popolazione che fa i conti tutti i giorni con la scarsità di prodotti alimentari, beni di prima necessità e con un’inflazione che ha raggiunto il 180%, è ormai giunta al culmine. Tutto il Paese è in attesa dell’evento di partecipazione democratica che sembra prospettare un cambiamento di rotta: il referendum revocatorio sul mandato presidenziale di Nicolás Maduro, promosso dall’opposizione lo scorso aprile.

Il Presidente Nicolás Maduro vinse le elezioni nell’aprile 2013, sull’onda di commozione che attraversava il Paese per la recente morte di Hugo Chávez, avvenuta il 5 marzo dello stesso anno. Maduro, pur essendo stato indicato come auspicabile successore da Chávez, non ha mostrato lo stesso carisma del suo predecessore. Se nel 2013 vinse le elezioni ottenendo il 50,61% dei voti, contro un 49,12% del candidato dell’opposizione Capriles Radonski, da quel momento il consenso attorno alla sua figura non ha fatto che sgretolarsi lentamente.Il segno più evidente di tale perdita di consenso, oltre alle numerose manifestazioni dell’opposizione, sono state senza dubbio le elezioni per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale tenutesi lo scorso 6 dicembre. In tale occasione l’opposizione riunita nel MUD (Mesa de Unidad Democrática) ha ottenuto 109 seggi su un totale di 167.

La Costituzione venezuelana, che è stata riscritta nel 1999 sotto la presidenza Chávez, prevede, all’articolo 72, la possibilità di sottoporre ad un referendum revocatorio qualsiasi carica pubblica elettiva una volta trascorsa metà del mandato. Per questa ragione, ad aprile l’opposizione venezuelana ha sottoposto al Consiglio Nazionale Elettorale (CNE) la richiesta per indire un referendum sulla permanenza in carica del Presidente Maduro. La procedura per organizzare il referendum secondo la legge venezuelana si articola in 4 fasi: la prima consiste nel sottoporre la richiesta al CNE. La seconda fase consiste nel raccogliere le firme dell’1% degli iscritti al registro elettorale di tutto il Paese (197.978 firme) e consegnarla al CNE il quale procede a verificare la validità di tali firme. Il 10 giugno scorso la Presidente del CNE, Tibisay Lucena, ha reso pubblici i risultati del processo di convalida delle più di 1 milione e 900 mila firme presentate dall’opposizione. Sono state ritenute invalide circa 605 mila firme (sostenendo che si tratta di firme ripetute più volte o nominativi riferiti a persone decedute), permettendo comunque all’opposizione di ottenere la convalida di un milione e 352 mila firme (a fronte delle 197.978 richieste). Questo ha permesso al CNE di passare alla terza fase che avrà luogo dal 20 giugno al 26 luglio prossimo e che prevederà la raccolta di almeno il 20% delle firme degli iscritti ai registri elettorali (si tratta di un minimo di circa 3 milioni e 900 mila firme). Una volta completata anche tale fase, potrà essere fissata la data per il referendum revocatorio. Il referendum potrà dunque decretare la fine anticipata del mandato presidenziale se voteranno per la revoca un numero di elettori almeno uguale a coloro che nel 2013 votarono per l’elezione di Maduro.

Nel frattempo la tensione è elevata ed il rischio di scontri tra chavistas e opposizione nel Paese è concreto, tanto che la Presidente del CNE ha invitato le forze politiche a non intraprendere nessun atto di violenza, pena la sospensione del processo di convalida della richiesta referendaria.

L’instabilità del Paese è causata in primo luogo dalla crisi economica provocata dal basso prezzo del petrolio a livello internazionale, il quale rappresenta la principale fonte di sostentamento per l’economia venezuelana. Il Venezuela possiede secondo le stime dell’OPEC le maggiori riserve di petrolio a livello internazionale ed è tra i primi dieci Paesi produttori nel settore. Tuttavia, il Paese non è riuscito a trarre sufficientemente profitto da questa risorsa. Le opposte fazioni politiche si incolpano l’un l’altra della situazione di emergenza in cui versa il Paese. Da un lato l’opposizione ritiene che la crisi sia dovuta alla cattiva gestione del Partito socialista Unito del Venezuela al governo ormai da 17 anni, dall’altro il governo incolpa le élites economiche del Pase di aver volontariamente interrotto la produzione di alcuni beni per far collassare il governo ed indurre la popolazione a preferire un cambio di regime. A tale proposito, Maduro ha spesso parlato nei sui discorsi di una “guerra economica” messa a punto dalle élites locali con il sostegno degli Stati Uniti. Ad aggravare la crisi si è inoltre aggiunto il fenomeno del Niño, una siccità che ha ridotto il funzionamento delle principali centrali idroelettriche del Paese (da cui dipende circa il 70% delle forniture energetiche del Paese). Ciò ha costretto il governo ad imporre un risparmio energetico a tutto il Paese, riducendo per esempio l’orario di lavoro dei dipendenti pubblici.

La prima necessità del Venezuela è oggi ritrovare un clima di conciliazione, un compromesso per il bene collettivo, superare la violenta e cieca opposizione tra sostenitori di forze politiche opposte e sostenere insieme le misure per risolvere i problemi di base del Venezuela: la criminalità, la forte disuguaglianza tra classi sociali, la carenza di servizi pubblici di qualità accessibili a tutti (istruzione e sanità) e la corruzione. La creazione di una classe media più numerosa, attenuando le differenze economiche sociali e culturali tra la popolazione, non solo andrebbe a risolvere il primo ed il secondo problema, ma creerebbe anche le condizioni per attenuare il clima di polarizzazione e violenza nelle posizioni politiche. Infine, dal punto di vista economico una redistribuzione della ricchezza a sostegno della classe media favorirebbe un incremento dei consumi, delle piccole attività imprenditoriali e dunque sosterrebbe la ripresa economica di un Paese che si trova all’orlo del collasso.

Ad oggi il governo di Maduro ha perso il sostegno della maggioranza della popolazione venezuelana e se l’insoddisfazione generale della popolazione non troverà espressione nel referendum revocatorio, vi è il rischio di una sollevazione popolare simile a quella già avvenuta nel 1989 (Il “Caracazo”). Il probabile successo del referendum revocatorio apre dunque la strada al ritorno dell’opposizione al governo dopo 17 anni di chavismo, ma lascia aperte le ferite di un popolo socialmente diviso in blocchi contrapposti. La vera sfida consisterà nel riuscire a sanare questa ferita aperta da tempi immemori.

di Elena Saroni

Tunisia, la (non) svolta di Ennahda

Il X congresso del partito sancisce la fine dell’islam politico e la nascita dell’islam democratico. Si tratta del primo caso al mondo in cui una formazione politica di matrice islamica rinuncia alla “dawa”. Tuttavia il nuovo corso intrapreso dal movimento guidato da  Rashid Ghannoushi rischia di rivelarsi controproducente.

Rashid Ghannoushi, 74 anni, leader del partito islamico tunisino Ennahda prende la parola: “Le primavere arabe non hanno portato solo l’inverno dell’Isis: oggi a Tunisi comincia l’estate delle democrazie musulmane!”.

Davanti ai 13.000 sostenitori ed i 1.200 delegati riunitisi Stade Olympique de Rades, 20km dalla capitale, l’ex professore di filosofia, rientrato nel 2011 in patria dopo 20 anni di esilio a Londra, continua: “L’Islam politico non ha più alcuna giustificazione in Tunisia. Ci occuperemo solo d’attività politica, non di religione. Sarà un bene per i politici, che non saranno più accusati di strumentalizzare la religione. E lo sarà per la religione, mai più ostaggio della politica».

Le parole appena pronunciate chiudono i lavori del terzo ed ultimo giorno del X Congresso nazionale del del movimento leader dei moti del 2011 dove, con votazione finale, l’80.6% dei delegati si è espresso in favore dell’abbandono definitivo della dawa, ovvero la definitiva separazione dell’attivismo politico dalle attività religiose in seno a questo; per la prima volta un partito di matrice islamica rinuncia all’Islam politico.

Tale révirement non arriva come un fulmine a ciel sereno. L’intenzione di intraprendere un nuovo corso era già stata annunciata il 19 maggio, dalle colonne del quotidiano francese Le Monde. In tale occasione il  presidente del partito, intervistato, aveva affermato: “dopo la rivoluzione dei gelsomini nel 2011 e l’adozione nel 2014 della nuova Costituzione – ha detto Ghannoushi – in Tunisia non c’è più’ alcuna giustificazione per un movimento che si richiami ad un Islam politico”.

Parlare di “svolta”, tuttavia, è fuorviante. Ennahda ha infatti intrapreso, sin dal 2011, un percorso di istituzionalizzazione e de-radicalizzazione che l’ha resa un attore politico di primo piano, parte integrante della competizione politica democratica tunisina, nonché uno dei pilastri sui quali poggia il (fragile) successo della transizione democratica in corso nel paese. L’abbandono della dawa può essere vista, dunque, come la culminazione di un processo che ha luogo da ormai 5 anni; un balzo in avanti, uno strappo al più, ma non un vero e proprio cambio di direzione.

 

Restano, ad ogni modo, dubbi e criticità. Un primo nodo da scogliere sarà quello riguardante l’autenticità di tale decisione. Molti sono, infatti, gli analisti e gli opinion leaders che nutrono dubbi a riguardo, ipotizzando che quello operato da Ennahda sia soltato un atto di taqiyya, (un precetto islamico che prevede la possibilità di dissimulare o addirittura rinnegare esteriormente la fede islamica in casi eccezionali). Di tale avviso è lo stesso Mustapha Tlili, il quale, nel suo editoriale sul quotidiano Leaders, ha accusato lo stesso Ghannoushi di aver messo in scena una vera e propria “illusione”, arrivando a chiedere, come prova di sincerità, l’introduzione della separazione tra Stato ed Islam anche nella Costituzione, ad oggi prevista nel testo, ma in maniera piuttosto vaga.

È tuttavia plausibile, se si considera il pragmatismo dimostrato in questi anni dal fondatore del movimento, che tale scelta, più che un autentico ripensamento sul rapporto tra politica e religione, sia una mossa strategica. Presentandosi infatti come prima forza politica del paese e definendosi “un movimento democratico e civile” Ennahda intende avvicinarsi al Presidente della Repubblica Beji Caid Essebsi, in un momento in cui il partito secolarista alla guida del governo di coalizione, Nidaa-Tounes, si trova ad affrontare una grave crisi interna ed un rimpasto di governo sembra ormai inevitabile.

In secondo luogo, poi, bisognerà trovare una risposta ad una questione che, nel trionfalismo con il quale i media di tutto il mondo hanno accolto “la svolta di Ennahda” sembra sfuggire al dibattito pubblico, ma sulla quale si giocherà una partita importante nel percorso verso un regime stabile e  pienamente democratico.

Accettando la competizione democratica e partecipando alle elezioni dell’Assemblea Costituente, il partito islamico ha progressivamente abbandonato le posizioni anti-sistemiche degli anni di Ben-Ali e della rivoluzione, divenendo un elemento di mediazione tra i partiti secolaristi ed i movimenti politici islamisti di stampo radicale emersi in questi anni sul territorio nazionale in un contesto sempre più polarizzato.  Sino ad oggi, dunque, il “Movimento della Rinascita” è stato, de facto, l’unica forza legittima in grado di dialogare con il nuovo salafismo, assurgendo a catalizzatore politico delle istanze islamiche provenienti dalla società civile.

A tale processo, però, è corrisposta una reazione uguale e contraria provocando molte spaccature all’interno del fronte islamico. Una parte della popolazione, soprattutto tra le fasce più giovani, non ha accettato le scelte intraprese dal partito, rimanendo su posizioni anti-sistemiche e, di conseguenza, affluendo verso gruppi più radicali.

Al tempo stesso, proprio l’inclusione della sezione tunisina dei Fratelli Musulmani ha reso possibile la progressiva marginalizzazione degli altri movimenti islamisti dal contesto istituzionale, con ciò contribuendo alla loro radicalizzazione. Il movimento Ansar al-Shari’a (AST) ne è una prova. Questo, infatti, dopo i moti del 2011, in un primo momento non era andato contro le istituzioni tunisine; con la progressiva integrazione di Ennahda nelle dinamiche istituzionali ed in seguito alle repressioni operate nei suoi confronti dal governo, da un lato ha visto allargarsi le sue fila mentre, dall’altro, è andato incontro ad una ulteriore radicalizzazione.

Alla luce di quanto detto pare lecito domandarsi se lo strappo operato durante l’ultimo congresso non possa portare ad effetti controproducenti. L’abbandono della dawa da parte di Ennahda lascia scoperta una matrice culturale e politica di primaria importanza nella società tunisina alla quale, dal 2011 ad oggi, il partito di Ghannoushi ha garantito un’espressione moderata. La “svolta di Ennahda” lascia dunque un vuoto che dovrà essere colmato, ma da chi?

Sebbene il 73% dei tunisini si sia espresso a favore della separazione tra stato e religione, vi è comunque una fetta importante della popolazione che, non condividendola, potrà trovare forme di rappresentanza dell’Islam politico solo in partiti assai più radicali, non essendo presente sul territorio tunisino un’altra forza islamista moderata. Ne consegue che, se da un lato i Fratelli Musulmani tunisini, magari memori dell’esperienza dei cugini egiziani, hanno preso definitivamente le distanze dai movimenti estremisti,  dall’altro quella che, più che un vero ripensamento, potrebbe essere una scelta strategica per porsi alla guida dell’esecutivo in caso di deposizione dell’attuale primo ministro Habib Essid,  invece di  portare ad un’ulteriore stabilizzazione del sistema politico in Tunisia rischia di rafforzare proprio quelle forze che vorrebbero destabilizzarlo.

Di Tommaso Muré

Convegno “Europa e Russia: quali rapporti?”. On.Maullu: “Basta sanzioni”

BreakingNews di

“Le sanzioni devono essere abolite. Non ci sono più, sempre che ci siano mai state, ragioni politiche reali per proseguire su questa strada, tanto dannosa politicamente quanto disastrosa economicamente”. Con questa dichiarazione, l’on.Stefano Maullu, organizzatore del convegno “Europa e Russia: quali rapporti?”, tenutosi a Milano sabato 21 maggio, ha sintetizzato il tenore degli interventi dei relatori intervenuti per l’occasione. Un evento in cui è stata sottolineata la necessità di una politica estera autonoma rispetto a Bruxelles e di un piano di investimenti delle PMI, con particolare riferimento al tessuto imprenditoriale lombardo, sul territorio russo.
“Io ho seguito la prima parte di Expo anche dal punto di vista dell’internazionalizzazione delle imprese – ha affermato il relatore Fabrizio Sala, Consigliere Regionale della Lombardia -. Noi lombardi e noi italiani ci siamo giocati un ruolo importante sullo scacchiere
internazionale. Vi voglio raccontare due aneddoti relativi a questo evento. Proprio prima dell’Esposizione Universale, presi dalla foga di invitare stranieri, abbiamo girato il mondo portando le eccellenze della Lombardia, soprattutto quelle imprenditoriali, con un po’ di timore perché magari conosciuti poco dalle comunità straniere. Sono stato alla NIAF, fondazione degli italoamericani negli USA, una lobby estremamente importante per la politica americana, e ho rivolto loro una domanda: ‘Perchè la maggior parte delle vostre multinazionali sceglie Milano e la Lombardia come sede europea?’. La risposta è stata: “Perchè voi possedete il miglior capitale umano in Europa”. Nello stesso viaggio vado a Montreal, in Quebec, dove persone da tutto il Canada vanno a visitare i loro resti più antichi risalenti al ‘600. Sono tornato da questi viaggi con due sentimenti: la rabbia perché non riusciamo a presentarci per quello che veramente siamo quando andiamo all’estero; entusiasmo, perché c’è un sacco di lavoro da fare visto che la maggior parte del mondo si sta sviluppando mentre noi siamo ancora in recessione”.

Su Mosca: “Siamo andati anche nella Federazione Russa e in varie regioni. Nella regione di Mosca ci siamo accorti che, dopo un anno e mezzo, la percentuale di successo delle PMI è 92%. Data l’esistenza delle sanzioni, abbiamo scritto alcuni accordi individuando alcuni settori, quelli in cui la Lombardia è più forte, e ora possiamo operare in quel contesto”.

E ancora: “In Russia, c’è tanta voglia di spirito imprenditoriale italiano e lombardo. Perchè noi siamo interessati a questo? Perché noi abbiamo questa visione: in un momento in cui l’economia interna è stagnante mentre nel resto del mondo c’è uno sviluppo in atto, accade una cosa particolare: il crollo del valore delle materie prime ha imposto, per esempio, a Mosca di tagliare il suo bilancio del 48% e ha imposto a tutti gli Stati produttori di materie prime di stimolare la produzione interna. Anche quella delle piccole e medie aziende perché consente di avere flessibilità economica anche in caso di crisi e, al contempo, è possibile aumentare il loro valore: questo genera ricchezza e permette alle nostre PMI di essere presente specialmente in quegli Stati che si stanno sviluppando. Noi abbiamo necessità di avere alleanze con Paesi come la Federazione Russia poiché questa è la porta di entrata versi tanti mondi dove noi possiamo correre come eccellenza. Se andiamo all’estero, avvertiamo subito la consapevolezza che abbiamo una materia prima eccezionale che possiamo ancora spendere per la nostra economia perché questa è l’unica strada per uscire dalla nostra crisi”.

Ubaldo Livolsi, Presidente Livolsi&Partners S.p.a, si è soffermato sulle modalità di ripresa dei rapporti tra Italia e Federazione Russa: “Stiamo vedendo com’è difficile risollevarci da un periodo di non crescita e disoccupazione. Quindi, un partner così importante come la Russia è indubbiamente importante per lo sviluppo futuro della nostra economia”.

Infatti, con le sanzioni e con il crollo del prezzo dell’energia, i russi hanno deciso di impostare una nuova strategia: la sostituzione delle importazioni. Pertanto, noi ci troviamo di fronte una nazione che sta portando avanti una politica economica basata sull’industria locale. Lo stanno facendo attraverso una politica estremamente intelligente: ‘Benissimo, se voi volete vendere i vostri prodotti, non potete più solamente esportarli e portarceli qui; dovete sviluppare delle aziende autonome o delle joint venture con delle capacità proprie di insediamento o con società a responsabilità limitata’. Questa è la politica che il governo russo sta cercando di portare avanti. Quindi, hanno stabilito un contratto di speciale di investimento, che è una formula nuova ed estremamente importante definita negli ultimi mesi”.

Non solo: “Il Ministero dell’Industria, a fronte di progetti ben precisi, sviluppa tutta una serie di autorizzazioni e agevolazioni che hanno una durata temporale definitiva in sei mesi – afferma Livolsi -. Dopodichè, l’imprenditore italiano, che deve presentare un programma preciso di come voglia insediarsi nell’economia russa, deve sviluppare, nelle zone speciali individuate, tutte forme di accordo con la regione russa dove è posta l’impresa. Questa è una forma che dà la possibilità di avere vantaggi finanziari, fiscali ed economici incredibili: quindi, dobbiamo assolutamente cercare di sviluppare questa nuova opportunità proprio per andare a catturare, in questo momento specifico, una volontà del governo russo di avere imprenditori, possibilmente italiani, che possano sviluppare attività nella Federazione Russa. Hanno individuato zone specifiche dove esistono già insediamenti di carattere internazionale. Quello che si vuole fare è cercare di portare la filiera: per questo, le PMI potrebbero essere ideali per lo sviluppo di questo tipo di economia”.

“Vorrei terminare con un messaggio: le PMI sono pronte a passare da un discorso di esportazione ad uno di insediamento di carattere industriale? Ci sono le capacità tecniche, manageriali, personali per potere fare questo salto di qualità? Abbiamo noi la capacità di aggregare nelle varie forme elencate sopra la possibilità di sviluppare quella rete che molto spesso manca a noi italiani per portare avanti e a termine queste imprese? La risposta è che se non lo facciamo è che, inevitabilmente, lo spazio verrà occupato da altri e perderemo un’opportunità più unica che rara di insediarsi, in un momento così favorevole, nel tessuto produttivo russo?”, conclude Livolsi.

Ettore Prandini, Presidente Federazione Coldiretti Lombardia, sottolineando le cospicue perdite del Made in Italy rilancia l’idea di una ”valorizzazione dei nostri prodotti che parta da una collaborazione a 360 gradi anche con il mercato italiano”.

Mentre Tommaso Cancellara, Direttore Generale Assocalzaturifici, analizza i dati relativi al suo settore: “Il settore calzaturiero italiano è uno dei pilastri del sistema moda italiano. Due parole sul contesto. L’Italia è di gran lungo il maggior produttore al mondo di medio-alto livello. In risposta al dottor Livolsi sull’organizzarsi strutturalmente, managerialmente e artigianalmente per sfruttare effettivamente l’opportunità del mercato russo di sostituzione dell’import con la produzione locale, io direi di no perché questo tipo di Made in Italy lo si può fare solo in Italia, non lo si può esportare. Noi non possiamo prendere degli artigiani e spostarli letteralmente in Russia: non sono dei processi o dei macchinari, ma persone che con il martello creano le migliori calzature al mondo”.

I dati della crisi dell’export con la Russia: “Un paio di numeri. Il 34% delle perdite citate dall’on.Maullu sono purtroppo solo i dati dell’ultimo anno. In realtà, in due anni, abbiamo perso il 44,3%: da 10,5 milioni di paia, oggi ne esportiamo 5,9. Un crollo verticale, un dramma sulla pelle delle nostre aziende. In un anno e mezzo hanno chiuso, nel solo settore calzaturiero, almeno 100 aziende direttamente legate al fattore Russia. Stiamo parlando di 1500 dipendenti rimasti a casa per un regime di sanzioni allucinante e assurdo che noi combattiamo. Siamo felici che il deputato Maullu stia portando avanti questo tipo di iniziativa e speriamo che tutto il Parlamento Europeo si accorga che le difficoltà dei Paesi produttori, come Italia, Spagna e Portogallo stanno affrontando in primis”, conclude.

A military operation to cleanse the borderline between Iraq, Syria and Jordan

On May 19, the security committee member in Anbar Province, Bahr Barakat al-Eissawi has announced that the borderline between Iraq, Syria and Jordan west of Ramadi (110 km west of Baghdad) will be opened again: “The joint forces began, at noon today, a large-scale military operation to cleanse the borderline between Iraq, Syria and Jordan that extends from Rutba District and Trebil crossing point to al-Waleed crossing point west of Anbar. Trebil crossing point will be opened after completing the military operations against the terrorist cells and securing the international highway from Rutba District to Ramadi.” In this way, the most important trade passage between Iraq and Jordan could return to run within a few weeks.

Russia, varata nuova legge antiterrorismo

Asia/POLITICA di

Da quando il conflitto è alle porte la Federazione Russa ha pensato di costituire uno schermo di tipo giuridico anti-terroistico, che però si sta rivelando essere solo un altro dei tentativi per centralizzare e rafforzare il potere dello Stato. La Duma si propone di inasprire le sanzioni per il terrorismo e l’estremismo, e, inoltre, vietare l’espatrio a coloro che possono essere sospettati di aver compiuti atti riconducibili al terrorismo. In effetti la minaccia alla quiete pubblica nelle ultime settimane, come ad esempio l’attacco degli estremisti a Stavropol’, ha fatto sì che fosse necessaria un’iniziativa del genere.
Il giorno 11 aprile 2016 sono stati presentati al parlamento due disegni di legge che andrebbero ad incidere norme contenute nel Codice Penale. Tali modifiche sono state proposte da un deputato della Duma Irina Yarovaya e dal Presidente del Comitato del Consiglio della Federazione sulla difesa e la sicurezza Viktor Ozerov.

Le modifiche sono svolte non solo nella direzione di una più severa pena per le attività affini al terrorismo. Esse andrebbero a colpire immediatamente un certo numero di sfere di vita dei cittadini, enti pubblici e strutture commerciali. L’estremismo può essere considerato anche un post su un social network, se si trova ad essere secondo il nuovo Art. 280 del codice penale affine a quelle attività considerate estremiste. Si innalza il tempo della detenzione e vengono maggiorate le multe. Sono state prese delle misure in materia di revoca della cittadinanza per coloro che sono sotto processo per atti di terrorismo e l’estremismo e impedito loro l’espatrio. E’ stata ridotta la soglia di responsabilità per i minori che dai 16 scende ai 14 anni. Inoltre le nuove sanzioni prevedono da 3000 a 5000 rubli per i cittadini che non si conformano all’obbligo di notificare al Roskomnadzor  le informazioni riguardanti l’organizzazione o lo scambio di dati tra gli utenti in rete, così anche  come violazione del dovere di memorizzare i dati per 6 mesi.

Gli autori di un nuovo pacchetto di iniziative anti-estremista vogliono in particolare limitare l’uscita dal Paese per “Ribellione armata” (Art.279 codice penale) o “Attacco contro persone o istituzioni che godono di protezione internazionale” (art. 360 del codice penale). Sono stati proposti degli articoli anche per il “terrorismo internazionale”, con la pena da 15 anni all’ergastolo, senza possibilità di libertà condizionale, e senza un termine di prescrizione e “Promozione di attività estremista”.

Oltre all’inserimento degli articoli ex novo sono state proposte anche delle puntualizzazioni come ad esempio nelle materie sulla cittadinanza della Federazione Russa. Ne può essere effettuata la revoca qualora il soggetto rientri nella sfera di giurisdizione di quegli articoli che ne provino l’affiliazione ad attività estremiste, con una puntualizzazione che esclude i casi di revoca “se una persona non ha altra cittadinanza o garanzie della sua acquisizione.”
La particolarità di queste leggi è che possono essere rivolti a chiunque. Il fatto che l’imputato o l’indagato rimarrà sul territorio della Russia, non influenzerà la sicurezza dei cittadini. Allo stesso modo, non ha alcuna importanza il fatto che per l’appartenenza a un gruppo armato illegale la responsabilità sia scesa a  14 anni. Gli autori avevano in mente la minaccia rappresentata dall’ISIS, ma i meccanismi di queste nuove leggi possono indurre in suoi abusi, grazie alle linee larghe che non hanno logica organica ma un insieme di azioni volte a rafforzare le misure di controllo. Anche il deputato della Duma di Stato Dmitry Gudkov ha puntualizzato come articoli come quelli che trattano la responsabilità la “promozione dell’attività estremista” possono considerarsi dirette all’eliminazione dell’opposizione del governo.  

La piattaforma Talk.rublacklist.net ha raccolto commenti inerenti a tale disegno di legge. Ne è risultato che la revisione è vista come un nuovo criterio per classificare le attività terroristiche sotto forma di “attività che destabilizzano le autorità”. Si estende il controllo delle comunicazioni di rete dei cittadini. Hosting provider, proprietari di siti web e altre persone (comprese le risorse estere), saranno  costretti a memorizzare i dati sull’ammissione, il trasferimento, il trasporto, la manipolazione varie informazioni elettroniche per sei mesi. Si parla anche dei pagamenti elettronici: saranno limitati quelli non personalizzati, ossia pagamenti effettuati senza identificare il cliente. Questo potrebbe rappresentare una lesione delle libertà personali che concernono sopratutto l’unione di più gruppi e la condivisione degli interessi dei consociati.

Così con il proposito di svolgere delle attività “anti-terroristiche”, i nuovi emendamenti risolvono contemporaneamente alcuni problemi rilevanti per La Federazione Russa come il rafforzamento dei poteri dell’FSB e della Banca Centrale,  Il rafforzamento del controllo sulle comunicazioni di rete dei cittadini, rafforzamento del controllo sulle operazioni finanziarie dei cittadini, con l’ausilio di mezzi elettronici di pagamento, rafforzamento del controllo sulle attività delle ONG.

Yauheniya Dzemianchuk

Alessandro Conte

IOM: 164,752 arrivals in 2016, 531 deaths

BreakingNews @en di

164,752 migrants or refugees entered in Europe by sea in 2016: 149,534 in Greece (366 deaths in Eastern route), 15,218 in Italy (165 deaths in Central and Western Route). These are IOM numbers about the EU immigration from January to March 2016. A report which certifies a new migration route map.

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A new migration route map which means two different origins. Indeed, Sub-Saharian people usually prefer pass through Libya and Italy to reach Europe. While Syrians and Iraqis have definitely chosen the Greek route. As reported by Hellenic Coast Guard, “77,392 of the newly arrived migrants are from Syria, 38,116 from Afghanistan, 23,078 from Iraq, 5,085 from Pakistan and 4,369 from Iran.” And from January 2015 to March 2016 IOM calculated “1,003,184 arrivals to Greece by sea.”

And like Kelly Namia of the IOM Athens office said, “It should be emphasized that there was a significant decrease in daily arrivals in March 2016, when 24,727 have reached Greece. The majority of the newly arrived migrants have reached the island of Lesbos, which accounted for 58% of the overall arrivals. Another 23 % arrived in Chios, 6% in Samos and 6% in Leros.”

 

Arrivals by sea and deaths in the Mediterranean (http://www.iom.int/news/mediterranean-migrant-arrivals-2016-164752-deaths-531)

1 January – 29 March 2016

 Country of Arrival

Arrivals

Deaths

Italy 15,218 165 (Central and Western Med route)
Greece 149,534 366
(Eastern Med route)
Estimated Total 164,752 531

 

  Arrivals by sea to Italy 
January – March 2015/2016
(
Source: Italian Ministry of Interior)

2015

2016

January

3,528

5,273

February

4,354

3,827

March

2,283

6,118 
(Estimate as of 29 March)

Total

10,165

15,218 
(Estimate as of 29 March)

Redazione

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Russian and French views about Libya

BreakingNews @en/Politics di

French and Russian governments expressed two different positions about Libyan crisis on March 14.

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While unity government was not still approved, Russian minister of Foreign Affairs Sergej Lavrov said that a military operation will be operative only if UN Security Council approval. Conversely, French minister of Foreign Affairs Jean-Marc Ayrault asked “sanctions against those who put obstacles in the way, against those who ultimately stop the Libyan authorities from starting their work.”

Two differents viewpoints which show how Libyan context is becoming crucial as Syrian and Iraqi ones.
Redazione

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Redazione
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