Mentre in molte capitali europee le giornate scorrono tra la routine e la tranquillità, a poche ore di volo dai principali centri dell’Unione Europea si combatte una guerra che da tre anni devasta l’Ucraina. Un conflitto che, nonostante la sua vicinanza geografica, spesso sembra rimanere ai margini dell’attenzione pubblica. Eppure, la brutalità e la sistematicità degli attacchi russi pongono interrogativi profondi su giustizia, sicurezza e responsabilità internazionale.
Kharkiv, seconda città del Paese con 1,5 milioni di abitanti – tanti quanti Marsiglia o Monaco – è sotto attacco costante. Le immagini dei palazzi sventrati, delle scuole in fiamme, dei bambini feriti, scorrono come parte di un tragico bollettino quotidiano. Così come le cronache da Kherson, Sumy, Dnipro: città bombardate in pieno giorno, centri civili colpiti da droni kamikaze e missili balistici, popolazioni terrorizzate e costrette alla fuga.
La violenza non risparmia nessuno. Il 23 marzo a Kyiv, una bambina di cinque anni e suo padre, sfollati da Zaporizhzhia, sono stati uccisi da un drone; la madre è rimasta gravemente ferita. Pochi giorni dopo, nella regione di Donetsk, un’altra madre con la sua figlia di tre anni ha perso la vita in un bombardamento. Sono solo alcuni esempi delle centinaia di civili uccisi o feriti in attacchi mirati su obiettivi non militari.
Le autorità russe, lungi dal voler negoziare seriamente, partecipano formalmente ai tavoli internazionali solo per avanzare richieste che equivalgono alla capitolazione totale dell’Ucraina. Mosca, infatti, mira a un “accordo di pace” che preveda l’annessione ufficiale delle regioni occupate – Crimea, Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson – e la trasformazione di Kyiv in un governo fantoccio allineato con Mosca e integrato nell’Unione statale russo-bielorussa e nell’Unione Economica Eurasiatica.
Il piano del Cremlino non si basa sulla supremazia militare sul campo, ma su una strategia di terrore: bombardamenti quotidiani, distruzione delle infrastrutture critiche, sofferenza diffusa. L’obiettivo è fiaccare la volontà del popolo ucraino, spingerlo all’esilio o alla resa, inducendo un collasso politico interno che costringa le autorità a firmare un accordo inaccettabile.
Eppure, nonostante tre anni di guerra, la nazione ucraina resiste. Non chiede una tregua temporanea, ma una pace giusta, fondata sul diritto internazionale, sul rispetto dell’integrità territoriale e sull’inviolabilità delle frontiere. Una richiesta che dovrebbe risuonare forte anche nei palazzi europei e nei consessi internazionali.
Perché oggi, in Ucraina, si combatte anche per il futuro dell’Europa. E fingere che questa guerra non ci riguardi sarebbe non solo miope, ma pericoloso.