Quasi ogni ora, le notizie forniscono un nuovo motivo per “celebrare” un ulteriore passo verso il riavvicinamento tra Washington e Mosca. Putin ha finalmente nominato Alexander Darchiev come nuovo ambasciatore russo negli Stati Uniti? Meraviglioso. La NBC riporta che l’amministrazione Trump sta pianificando di iniziare a condividere dati sensibili con la Russia (immediatamente dopo aver interrotto i trasferimenti di intelligence all’Ucraina, bloccando persino l’uso dei missili britannici Storm Shadow)? Ancora più interessante.
Cerchiamo di capire cosa sta succedendo.
Partiamo dall’ovvio: i negoziati, iniziati lo scorso anno e ancora in corso, hanno già portato a cambiamenti significativi nelle relazioni bilaterali.
Entrambe le parti esprimono grande soddisfazione per i progressi nei negoziati, sia in base ai risultati dell’incontro a Riyadh, sia dopo il round di colloqui a Istanbul, sia in seguito ad altre consultazioni riservate.
La comunità internazionale ha iniziato a prestare attenzione il 12 febbraio, quando D. Trump ha parlato con V. Putin. Le voci secondo cui tali contatti fossero avvenuti in precedenza erano in realtà solo indiscrezioni basate su interpretazioni errate delle dichiarazioni del nuovo presidente degli Stati Uniti, a cui il Cremlino ha deciso di dare manforte «senza smentirle» tramite il portavoce di Putin, D. Peskov.
Poco dopo, il giorno di San Valentino, si è svolta una conversazione telefonica «romantica» (probabilmente perché entrambe le parti hanno cercato di nasconderla) tra il consigliere di politica estera del presidente russo, Yu. Ushakov, e il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti, M. Waltz. Tuttavia, in questa occasione si sono già discussi temi più pragmatici: l’acquisto di 150 aerei «Boeing» (uno dei problemi più critici per la Russia, dove attualmente ogni volo su un aereo è paragonabile a una roulette russa), la cooperazione nello spazio e nel settore energetico, l’interesse comune per l’Artico (tema importante anche per la Cina), e, ovviamente, la questione dell’Ucraina.
Nel primo vero colloquio, i presidenti hanno concordato di tenere i negoziati in Arabia Saudita, un paese accettabile per entrambe le parti. Trump si è subito comportato da esperto uomo d’affari, sottolineando l’interesse delle aziende americane, in particolare ExxonMobil, a riprendere le loro posizioni nel mercato russo. Putin ha colto facilmente l’aspetto commerciale della conversazione, rilanciando con l’interesse della Russia a tornare nel sistema del dollaro.
Il 17-18 febbraio si è tenuto l’incontro «storico» a Riyadh. In realtà, si è trattato di due riunioni separate: una sull’Ucraina e una sulla normalizzazione delle relazioni bilaterali. Per la parte americana erano presenti il Segretario di Stato M. Rubio, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale M. Waltz e il Rappresentante Speciale per il Medio Oriente S. Witkoff. Per qualche motivo, il Rappresentante Speciale per la risoluzione del conflitto in Ucraina, K. Kellogg, non è stato coinvolto.
Dalla parte russa erano presenti il consigliere presidenziale Yu. Ushakov, il ministro S. Lavrov e l’attuale rappresentante speciale per la «revoca delle sanzioni», nonché capo del fondo di investimento «Russian Private Equity Fund», K. Dmitriev (una figura accettabile per gli americani e vecchio socio in affari di Witkoff). Il futuro ambasciatore O. Darchiev non è stato incluso nella delegazione.
Ciononostante, i russi sapevano che l’amministrazione Trump aveva bisogno di dimostrare progressi dopo l’incontro in Arabia Saudita. Perciò, è stato possibile respingere con fermezza l’ipotesi di discutere un cessate il fuoco (Lavrov ha dichiarato apertamente in un’intervista che «l’armistizio è una strada senza uscita, servono accordi legali definitivi») e, invece, avanzare richieste come il mantenimento del controllo russo sui territori già conquistati e annessi alla Costituzione russa, l’avvio del processo di revoca delle sanzioni e il ripristino dell’accesso della Federazione Russa ai mercati globali.
Questa posizione russa riflette perfettamente le richieste avanzate dal Cremlino all’Occidente, secondo quanto riportato dalla testata Nowiny Polskie: un rapido cambio di governo (a partire dal presidente ucraino), la rinuncia dell’Occidente al sostegno all’Ucraina con conseguente smilitarizzazione del paese e la sua incapacità di difendersi in caso di nuove aggressioni.
E in cambio? Prima di tutto, la solita promessa – attraente ma mai mantenuta sin dai tempi di Kissinger – di allentare la cooperazione con la Cina.
In secondo luogo, la proposta insidiosa di concedere agli Stati Uniti il diritto di estrarre risorse minerarie (in particolare le tanto ambite terre rare) nei territori occupati dell’Ucraina. È chiaro che Mosca non ha alcuna intenzione di condividere le proprie risorse, ma è cruciale che gli Stati Uniti accettino di discutere l’argomento, legittimando così di fatto la sovranità del Cremlino sulle «nuove terre».
Ci sono già esempi concreti di cooperazione economica russo-americana. Uno dei primi progetti proposti è lo sviluppo congiunto del giacimento di minerali di Shevchenkiv, situato nelle zone temporaneamente occupate della regione di Donetsk, con riserve stimate di 14 milioni di tonnellate di minerali e 500 mila tonnellate di ossido di litio. In futuro, questa collaborazione potrebbe estendersi ad altre aree del mondo, come la Repubblica Democratica del Congo e, potenzialmente, la Groenlandia.
Inoltre, Mosca potrebbe promettere di non ripristinare le forniture di gas all’Europa e, in generale, di sollevare il tema dell’energia, facendo leva sulla mentalità imprenditoriale degli interlocutori americani. Il tutto con la consapevolezza che, senza investimenti e tecnologie occidentali, l’industria energetica russa è in declino.
Un’opzione in discussione è la creazione di una società di gestione unica per l’intera infrastruttura di trasporto del gas di Gazprom, con la partecipazione di giganti occidentali come BP, ExxonMobil, TotalEnergies, Shell e BlackRock come investitori.
Tornando ai negoziati, a Riyadh si è principalmente deciso di «continuare a negoziare». Sono stati istituiti gruppi strategici per vari ambiti di cooperazione, è stata avviata la ripresa dei contatti diplomatici e la preparazione di accordi economici.
Dopo il vertice, si sono delineati chiaramente due canali di trattativa russo-americana: uno politico (che potrebbe culminare in un incontro tra i due leader) e uno puramente commerciale, dove sono coinvolti oligarchi russi e imprenditori americani, soprattutto nei settori dell’energia, dell’estrazione mineraria e della finanza.
Nel frattempo, Mosca sta sondando nuovi temi su cui l’amministrazione Trump potrebbe essere interessata a collaborare, come la lotta al narcotraffico. In tal senso, il rappresentante del Ministero dell’Interno russo negli USA, A. Gusev, sta cercando di dimostrare le capacità della Russia ai dipartimenti di Giustizia, Sicurezza Interna, FBI e DEA.
Il 27 febbraio si è tenuto a Istanbul un nuovo round di consultazioni per sviluppare gli accordi sauditi, questa volta su un piano puramente diplomatico. La delegazione russa è stata guidata dall’«ambasciatore in pectore» Darchiev, mentre quella americana dalla vice assistente del Segretario di Stato, Sonata Coulter.
L’obiettivo finale di Mosca rimane lo stesso: arrivare a un incontro tra Putin e Trump per ridefinire le sfere di influenza globali, magari firmando un accordo con un protocollo segreto, come quello siglato il 23 agosto 1939 tra l’URSS e la Germania nazista. E l’Europa? Resta un problema solo per sé stessa.