Iran nuovamente sotto le sanzioni usa

29 Novembre 2018
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Mentre in Italia il 4 novembre ’18 si celebra  l’anniversario della vittoria della Prima Guerra Mondiale, negli Stati Uniti questa data segna la fine dei 180 giorni dall’annuncio del presidente Donald Trump del ritiro statunitense dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA),  trattato multilaterale concluso nel 2015 da Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Cina, Unione Europea e Russia, finalizzato a bloccare la possibilità di sviluppo da parte dell’Iran di un armamento nucleare.

Siglato sotto l’amministazione Obama, il trattato segna inizialmente un passo importante nelle relazioni tra Washington e Teheran, testimoniando l’avvio di un percorso alternativo a quello delle sanzioni fino ad allora perseguito. Tuttavia, sin dall’inizio del proprio mandato, il presidente Trump manifesta la propria disapprovazione in merito all’accordo. Il 5 maggio scorso arriva, dunque, l’annuncio del definitivo ritiro degli USA dal JCPOA e il ripristino delle sanzioni economiche e finanziarie.

La reintroduzione delle sanzioni contro l’Iran viene stabilita in due differenti tornate, rispettivamente a distanza di 90 e 180 giorni. Il 7 agosto scorso vengono  ripristinate le sanzioni che colpiscono il commercio di auto motive, oro e materiali preziosi. Il 5 novembre è, invece, la volta dei settori energetici e finanziari: colpita quindi l’esportazione di petrolio, i trasporti e le industrie cantieristiche, nonché le attività degli istituti finanziari stranieri con la Central Bank of Iran. Tra gli obiettivi delle sanzioni anche individui, compagnie aeree ed entità già precedentemente nella “black list” americana.

Secondo gli analisti, queste sanzioni sono le più pesanti mai imposte fino ad oggi. Inoltre, gli Stati Uniti hanno apertamente minacciato di penalizzare anche tutti i buyer dell’Iran, mirando, così, al totale isolamento del paese.

Ma quali sono le ragioni dietro al ripristino delle sanzioni?

Come accennato, il presidente Trump ha ripetutamente espresso la propria opposizione al patto, definendolo recentemente come un “totale disastro”.

A distanza di tre anni dalla firma, Trump sostiene che il JCPOA abbia fallito nel garantire la sicurezza del popolo americano e nel proteggere gli interessi della nazione. Sotto questo trattato, il regime iraniano sarebbe cresciuto in termini di aggressività, continuando a minacciare gli Usa e i suoi alleati e rappresentando una solida fonte di finanziamento per le attività terroristiche. Secondo il presidente statunitense, il trattato non ha raggiunto l’intento primario di bloccare la possibilità dell’Iran di accedere alla bomba nucleare, creando, invece, un più sostanzioso flusso di denaro per le attività illegali dei regimi dittatoriali.

Le sanzioni mirano, quindi, a colpire le enormi entrate che l’Iran riceve dalla vendita del petrolio (la principale esportazione del paese). Tuttavia, la situazione è resa ancora più delicata dal fatto che numerosi stati (anche europei) in seguito alla firma del JCPOA hanno ripreso i rapporti commerciali con il regime del presidente Rouhani, specialmente per quanto riguarda l’acquisto dell’oro nero. Un “total ban” provocherebbe effetti devastanti a molteplici livelli, rischiando di destabilizzare l’ordine globale.

In quest’ottica, gli Usa hanno concesso a otto paesi importatori (Cina, India, Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Turchia, Grecia e Italia) altri 180 giorni per trovare una strada differente alle importazioni dall’Iran, a condizione di mostrare una progressiva riduzione degli acquisti. In particolar modo, riflettori puntati su Cina e India, paesi con un alto fabbisogno energetico. Sarebbe, infatti, abbastanza utopistico immaginare un taglio totale delle importazioni in appena sei mesi da parte di questi due paesi.

A ragione di queste concessioni, l’intento di evitare che i prezzi del petrolio aumentino vertiginosamente, andando così a colpire i consumatori americani in primis. Un aumento del prezzo del petrolio avrebbe ripercussioni a sua volta nel prezzo del carburante destinato all’aviazione (civile e militare), della plastica, del gas naturale e quindi, potenzialmente, una ripercussione sui costi dell’elettricità. Il mantenimento di un equilibrio globale resta una preoccupazione principale per Washington.

Se da un lato vediamo concessioni e proroghe, dall’altro più di 20 stati hanno già interrotto i rapporti con Teheran, preoccupati delle possibili ripercussioni degli Usa. Ad oggi, le esportazioni iraniane sono diminuite di circa 1 milione di barili al giorno.

Secondo quanto riportato dal Ahmad Majidyar, analista del Middle East Institute di Washington D.C., alcuni membri dell’amministrazione Trump, inoltre, sperano che le sanzioni imposte possano avere un impatto talmente negativo sull’economia iraniana da provocare una rivolta popolare e, addirittura, il rovesciamento del regime di Rouhani.

Vediamo, ora, quali sono state le principali reazioni al ritiro statunitense, in particolar modo quelle di Iran, di alcuni paesi del Medio Oriente e dei firmatari dell’accordo, tra cui la Russia.

Per quanto riguarda l’Iran, pronta la reazione del presidente Hassan Rouhani , che ha definito la decisione americana “an act of economic war”. Una guerra economica che la Repubblica Islamica ha tutta l’intenzione – e a detta del presidente anche le capacità- di vincere. Gli Stati Uniti vengono inoltre accusati di doppiogioco e violazione delle norme di diritto internazionale, in quanto la decisione del ritiro nega un accordo stipulato con altri paesi, che, invece, supportano ancora il patto. Il ministro degli Esteri Javad Zarif sottolinea come l’imposizione delle sanzioni rappresenti un gesto di sfida nei confronti delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza. Inoltre, ammonisce che il bullismo esercitato sulle altre nazioni potrebbe avere un effetto boomerang, tale per cui sarebbero poi gli Stati Uniti a ritrovarsi isolati, anziché l’Iran.

Sembra, dunque, che la scelta di Washington non spaventi particolarmente la Repubblica Islamica. Pur consapevole che tali penalità possano avere ripercussioni economiche negative, il Presidente iraniano ha fatto presente che già in passato l’economia del paese è stata sottoposta a sanzioni, riuscendo comunque a sopravvivere. Questa volta, sebbene le sanzioni imposte siano più severe, Rouhani ha dichiarato che molto probabilmente esse verranno violate. Un primo assaggio di questo atteggiamento, il test di un nuovo missile, a distanza di poche ore dal ripristino delle sanzioni. Questo missile farebbe parte di un sistema di difesa aerea su cui stanno lavorando l’Esercito iraniano e il Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica (IRGC).

Allo stato attuale, l’Iran è intenzionato a continuare ad aderire al JCPOA e a collaborare con gli altri firmatari per salvaguardare l’accordo e limitare l’impatto delle sanzioni americane. Tuttavia, le difficoltà incontrate dai paesi europei nel bloccare le sanzioni e la scelta di numerose compagnie internazionali e istituti bancari di interrompere i rapporti con l’Iran ha causato notevoli pressioni al presidente Rouhani soprattutto da parte dei vertici religiosi e dei leader delle Guardie Rivoluzionarie, che premono per una presa di posizione più dura nei confronti degli Stati Uniti. Il presidente Rouhani ha dunque annunciato che qualora i paesi europei non creino gli incentivi giusti per l’Iran per rimanere all’interno del patto, la Repubblica Islamica potrebbe considerare un ritiro dallo stesso e potenzialmente anche dal Trattato di Non Proliferazione, riprendendo l’attività di arricchimento dell’uranio.

Tra le altre minacce avanzate da Teheran, la possibile chiusura dello Stretto di Hormuz, un punto strategico nel Golfo Persico attraverso il quale scorre circa un terzo del greggio mondiale trasportato via mare. Una simile decisione avrebbe chiaramente ripercussioni non soltanto per gli Stati Uniti ma per l’intero ordine internazionale.

 

Per quanto riguarda i vicini arabi, una dimostrazione di supporto a Tehran arriva dall’Iraq. Il 17 novembre, il presidente Barham Salih si è, infatti, recato in visita dal presidente Rouhani, manifestando l’intento di rafforzare le relazioni tra i due paesi, nonostante il regime di sanzioni imposte dagli Usa. L’Iraq è il secondo maggior mercato per l’Iran, dopo la Cina, e i rapporti economici riguardano non solo la vendita di greggio ma anche alimenti, macchinari, elettricità e gas naturali.

Durante la visita, i due presidenti hanno parlato di un incremento nel commercio di elettricità e petrolio e dell’istituzione di “free trade zones” lungo il confine tra i due paesi, al fine di facilitare il commercio e il trasporto dei beni. Se nel 2017 il valore dei traffici commerciali tra i due paesi era di 7 milioni di dollari, l’obiettivo per quest’anno sale a quota 8 miliardi e mezzo di dollari. Nel medio-lungo periodo, la cifra dovrebbe raggiungere i 20 miliardi l’anno. Nell’agenda dei due paesi anche la creazione di un nuovo sistema regionale basato “sull’integrità politica, gli interessi nazionali e la cooperazione tra nazioni e governi”. Di questo tema, tuttavia, non sono stati specificati i dettagli.

 

Diversa, invece, la reazione dell’Arabia Saudita, storico alleato Usa e principale avversario dell’Iran nella “battaglia” per la supremazia nel Medio Oriente. Come gli Emirati Arabi Uniti e Israele, l’Arabia Saudita ha manifestato il proprio sostegno a Trump, appoggiando le sanzioni e offrendosi come alternativa al greggio iraniano.

Il ripristino delle sanzioni USA cade, infatti, in un periodo non semplice per i paesi produttori, in quanto molteplici sono state le interruzioni e i blackout in diversi impianti, tra cui quelli in Libia, Venezuela, Nigeria, Messico e Angola. La monarchia saudita è al momento l’unico paese produttore di petrolio ad avere riserve tali da poter compensare la perdita del petrolio iraniano.

Il Ministro dell’Energia saudita Khalid Al Falih ha comunicato che il paese è preparato per portare la produzione a quota 12 milioni di barili al giorno (ad ottobre si è già verificato un primo incremento, da 700,000 bpd (barrels per day) a 10.7 milioni). Inoltre, la monarchia può utilizzare le proprie riserve, che si aggirano intorno ai 300 miliardi di barili, per soddisfare il fabbisogno globale. Tuttavia, gli analisti dubitano che possa essere necessario utilizzare l’intera scorta saudita.

 

Anche gli EAU si sono immediatamente allineati alle decisioni di Washington, nonostante ciò provocherà un ulteriore calo nel commercio con l’Iran, in particolare per Dubai, polo commerciale della nazione. Abdullah al-Saleh, sottosegretario per il commercio estero e l’industria, annuncia che gli EAU stanno implementando tutte le sanzioni USA e prevede una nuova riduzione del commercio con l’Iran, dopo la perdita già registrata nel 2017 (circa 17 milioni di dollari a differenza dei 20 milioni di dollari nel 2013).

Gli Emirati, paese sempre più rilevante nelle dinamiche economiche e politiche del Medio Oriente, è uno degli oppositori del regime di Rouhani e della sua politica estera. Sostenere le sanzioni USA, che mirano –tra l’altro- all’isolamento e alla riduzione dell’influenza iraniana nella regione, rispecchia gli obiettivi della nazione, impegnata anche nella coalizione a guida saudita che combatte i ribelli Houthi (sostenuti dall’Iran) nella guerra civile in Yemen.

In risposta all’appoggio dimostrato, le compagnie emiratine non troveranno difficoltà di commercio con gli Stati Uniti, mentre il governo si impegnerà ad intensificare i rapporti commerciali con i mercati africani e asiatici, riprendendo una politica di diversificazione del commercio già varata da Abu Dhabi.

Non positiva, invece, la reazione degli altri firmatari del JCPOA, tendenzialmente soddisfatti dei risultati ottenuti e del rispetto di Teheran dei termini dell’accordo. Alla ferma condanna del ritiro statunitense dal patto, segue dunque la ricerca di un meccanismo ad hoc che posa permettere i pagamenti per il greggio iraniano e gli altri prodotti d’esportazione senza l’utilizzo del dollaro americano.

Una delle preoccupazioni maggiori è che le azioni di Trump possano avere l’effetto di destabilizzare una situazione già precaria. Anni di regime sanzionatorio hanno provocato effetti significativi nella struttura economica e sociale del paese, e i paesi europei temono che un nuovo irrigidimento verso l’Iran possa provocare nuova instabilità nel paese e ondate migratorie verso  i paesi limitrofi o l’Europa stessa, già gravata dal problema immigrazione. Da qui, l’intento di cercare strade alternative per il commercio con Teheran.

Dimostrazione di solidarietà anche dall’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Federica Mogherini, che ha espresso “profondo rammarico” per il ripristino delle sanzioni sull’Iran e sottolinea, in una nota congiunta con i Ministri degli Esteri e delle Finanze di Germania, Francia e Gran Bretagna, l’importanza di implementare l’accordo sul nucleare, “fondamentale per la sicurezza dell’Europa e del mondo intero”.

Altrettanto negativa la reazione della Russia alla scelta del presidente Trump. Il Ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha pubblicamente denunciato il ripristino delle sanzioni come un atto illegittimo e totalmente inaccettabili i metodi utilizzati da Washington per far pressione sugli istituti finanziari al fine di isolare l’Iran.

Seppur storcendo il naso, anche Mosca –come Riyad- potrebbe trarre alcuni vantaggi. Da un lato, “ereditando” alcuni dei maggiori importatori di petrolio iraniano, come Cina, Italia, Francia e Turchia, costretti a trovare una fonte d’approvvigionamento alternativa. E un più intenso legame economico potrebbe aiutare la cooperazione anche in altre aree. In secondo luogo, il commercio con la Russia potrebbe diventare per la Repubblica Islamica il modo migliore per alleviare le pressioni americane. L’Iran potrebbe ricevere i beni necessari per la nazione e investimenti russi sul proprio petrolio, che verrebbe comprato dalla Russia per soddisfare il fabbisogno del paese, e preservando quello di propria produzione per l’esportazione. È assai probabile, dunque, un intensificarsi delle relazioni –economiche e non- tra Mosca e Teheran. A differenza di altri paesi, preoccupati dalle reazioni statunitensi in caso di mantenimento di canali commerciali con l’Iran, la Russia di Putin non ha certo questo timore.

 

In conclusione, la mancanza di unità tra le maggiori potenze mondiali di certo non è un elemento favorevole per la creazione di un equilibrio regionale e globale. Da un lato, l’Iran vede nell’appoggio dei firmatari del JCPOA la sicurezza del non rimanere isolato; dall’altro, l’inevitabile interdipendenza dei vari paesi e mercati con la potenza americana può creare situazioni di attrito anche a livello globale. Ricordiamo, infatti, che in queste dinamiche di big powers, la Russia è a sua volta sotto sanzioni europee e statunitensi, e tra Cina e Usa è in corso una guerra economica.

Difficile ipotizzare che le sanzioni non avranno ripercussioni negative sull’economia iraniana e sugli equilibri politici globali. Molti paesi, come detto, hanno già tagliato i rapporti con il paese e altri si apprestano a farlo. Ufficiali ed esperti iraniani sono, tuttavia, convinti l’economia iraniana possa reggere la pressione delle sanzioni e sia ampiamente lontana dal collasso. Il budget su cui si basano è di $57 al barile e al momento la cifra raggiunge $75 a barile. A ciò si aggiunge la consapevolezza del supporto di altri paesi, che hanno deciso di continuare a intraprendere scambi commerciali con l’Iran, cercando sistemi alternativi di pagamento (tra cui, appunto, i paesi europei).

Ciò che invece preoccupa maggiormente i paesi europei sono le possibili ripercussioni interne ed esterne, soprattutto a livello sociale.

Il nuclear deal aveva già suscitato proteste tra la popolazione iraniana, in quanto non si erano concretizzati i benefici per il paese inizialmente promossi – e promessi- dal presidente Rohuani. Il popolo iraniano continua a vivere in condizioni di difficoltà economica e persino i giovani emigrati in altri paesi subiscono le conseguenze dei meccanismi sanzionatori, talvolta per l’ottenimento dei visti e dei documenti necessari per la permanenza all’estero, talvolta per l’impossibilità di trasferire denaro o accedere ai conti correnti. Il ripristino delle sanzioni potrà non far collassare l’economia nazionale, ma di certo non andrà a migliorare le già precarie condizioni dei cittadini iraniani e il rischio di nuove proteste e disordini è dietro l’angolo. A ciò si unisce la possibilità di esodi, che potrebbero gravare sia i paesi vicini sia l’Europa.

Resta, infine, da vedere come l’Italia reagirà ai 180 giorni di ultimatum concessi, riducendo effettivamente le importazioni di greggio dall’Iran, o optando, invece, per un sistema di pagamento alternativo. E quali saranno le ripercussioni in termini di rapporti con gli USA, non solo a livello economico, ma anche politico.

 

Paola Fratantoni

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