Crimini di guerra nello Yemen Meridionale, sparizioni e torture nei centri di detenzione

12 Luglio 2018
11 mins read

Nello Yemen meridionale vige ancora un sistema impunito di sparizioni forzate e torture, questa è la denuncia del nuovo rapporto di Amnesty International intitolato “Se è ancora vivo lo sa solo Dio”. Ad essere coinvolti sono decine di uomini arrestati dalle forze degli Emirati Arabi Uniti e forze locali che agiscono fuori dal controllo del governo yemenita. Molti sono stati torturati e si teme che alcuni siano morti durante la detenzione. Amnesty International ha svolto ricerche su 51 uomini arrestati da tali forze tra marzo 2016 e maggio 2018 nelle provincie di Aden, Lahj, Abyan, Hadramawt e Shabwa. Molti di essi hanno trascorso periodi di sparizione forzata e 19 di essi risultano tuttora scomparsi. Per la stesura del suo rapporto, l’organizzazione per i diritti umani ha intervistato 75 persone, tra le quali ex detenuti, parenti di persone scomparse, attivisti e rappresentanti del governo.

     Le famiglie dei detenuti stanno vivendo un incubo senza fine in cui ad ogni richiesta di informazione la risposta consiste nel silenzio o nelle intimidazioni. Madri, mogli e sorelle degli scomparsi svolgono regolari proteste da quasi due anni lungo un percorso che vede gli uffici governativi e della procura, le sedi dei servizi di sicurezza, le prigioni, le basi della coalizione a guida saudita e vari altri luoghi per presentare denunce relative ai loro cari. Le stesse famiglie hanno riferito di essere state avvicinate da persone che le hanno avvisate della morte in carcere di un loro parente, però quando sono andate a chiedere conferma alle forze yemenite sostenute dagli emirati queste hanno negato tutto. I familiari vivono nell’incertezza e nel dubbio che i loro cari siano ancora vivi, le parole della sorella di un uomo arrestato ad Aden alla fine del 2016 sono: “Non abbiamo la minima idea di dove sia, se è ancora vivo lo sa solo Dio. Nostro padre è morto d’infarto un mese fa, senza sapere dove fosse suo figlio. Vogliamo solo sapere che fine ha fatto nostro fratello, sentire la sua voce, sapere dove di trova. Se ha fatto qualcosa, non c’è un tribunale per processarlo? Almeno lo portassero a processo, almeno ce lo facessero visitare. Che senso hanno i tribunali allora? Perché li fanno sparire in questo modo?”. Nelle prigioni gestite dalle forze emiratine e yemenite vi è un uso massiccio dei maltrattamenti e della tortura. Detenuti ed ex detenuti hanno riferito di scariche elettriche, pestaggi e violenze sessuali, uno di questi inoltre ha visto un compagno di prigionia venir portato via in un sacco da cadavere dopo essere stato ripetutamente torturato. Un altro ex detenuto ha raccontato che i soldati degli Emirati di stanza nella base di Aden gli hanno inserito più volte un oggetto nell’ano, fino a farlo sanguinare e lo hanno tenuto in una buca nel terreno con la sola testa fuori dalla superficie, lasciandolo defecare e urinare in quel modo. Un altro caso ancora vede un uomo arrestato nella sua abitazione e rilasciato ore dopo con visibili segni di tortura per poi morire dopo il ricovero in ospedale. Tirana Hassan, direttrice di Amnesty International per la risposta alle crisi, ha commentato la situazione dicendo che “Gli Emirati, col loro modo di operate nell’ombra, hanno creato nello Yemen meridionale una sorta di struttura di sicurezza al di fuori della legge che compie gravi violazioni dei diritti umani senza pagarne le conseguenze”. La mancanza di un sistema cui rendere conto rende ancora più difficile alle famiglie contestare la legalità della detenzione dei loro congiunti. Anche quando alcuni magistrati yemeniti hanno cercato di prendere il controllo su alcune prigioni, i loro tentativi sono stati del tutto ignorati dalle forze degli Emirati e in diverse occasioni i loro provvedimenti di rilascio di detenuti sono stati ritardati”.

     Da quando, nel marzo 2015, hanno aderito alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita, gli Emirati hanno creato, addestrato, equipaggiato e finanziato varie forze di sicurezza locali, tra cui la Cintura di sicurezza e la Forza di élite, e costruito alleanze con singoli responsabili della sicurezza yemeniti, aggirando il governo locale. Da allora sono un alleato chiave della coalizione guidata dall’Arabia Saudita che dal marzo 2015 prende parte al conflitto armato dello Yemen. Il loro ruolo nella creazione della Cintura di sicurezza e delle Forze di élite ha ufficialmente l’obiettivo di combattere il terrorismo, dando la caccia ai membri di al-Qaeda nella Penisola araba e del gruppo denominatosi Stato islamico.  Però molti degli arresti sembrano basati su sospetti infondati poiché tra le persone prese di mira figurano coloro che hanno espresso critiche nei confronti della coalizione a guida saudita e dell’operato delle forze di sicurezza appoggiate dagli Emirati, nonché leader locali, attivisti, giornalisti e simpatizzanti e militanti del partito al-Islah, sezione yemenita della Fratellanza musulmana. Queste denunce non sono nuove e Tawakkol Karman, premio nobel e attivista yemenita esule in Turchia, ha dichiarato che una sfida importante per gli attivisti è rappresentata dai regimi repressivi che hanno un ruolo importante nel diffamarli a livello nazionale e internazionale. In contesti ostili, gli attivisti spesso vengono identificati come coloro che seguono istruzioni da altri paesi per cospirare contro il proprio paese e vengono accusati di terrorismo, con questa scusa sono soggetti ad abusi, torture e sparizioni forzate. Risultano colpiti anche i parenti di presunti membri di al-Qaeda e dello Stato islamico così come persone che inizialmente avevano aiutato la coalizione a guida saudita contro gli huthi e che adesso sono viste con sospetto. Secondo testimonianze oculari, gli arresti avvengono in mezzo alla strada, sul posto di lavoro, durante terrificanti raid notturni nelle abitazioni e sono condotti da persone dal volto travisato e pesantemente armati noti come “quelli mascherati”. Gli arrestati vengono talvolta picchiati sul posto fino a perdere conoscenza. Gli Emirati negano costantemente di essere coinvolti in pratiche detentive illegali, nonostante ogni prova dimostri il contrario. Il governo yemenita ha dichiarato a un panel di esperti delle Nazioni Unite di non avere il controllo sulle forze di sicurezza addestrate e sostenute dagli Emirati. “Queste violazioni, che si verificano nel contesto del conflitto armato dello Yemen, dovrebbero essere indagate come crimini di guerra. Sia il governo dello Yemen che quello degli Emirati dovrebbero prendere misure immediate per porvi fine e per dare risposte alle famiglie degli scomparsi. I partner degli Emirati nella lotta al terrorismo, tra cui gli Usa, dovrebbero prendere una chiara posizione sulle denunce di tortura, indagando anche sul ruolo del personale statunitense nelle violazioni che hanno luogo nei centri di detenzione yemeniti e rifiutando di utilizzare informazioni estorte con ogni probabilità mediante maltrattamenti e torture”, ha concluso Hassan.

Mappa dei centri di detenzione

La guerra in Yemen e l’Italia

     Lo Yemen è una realtà di cui spesso si tace, è una realtà che vive la più grande catastrofe umanitaria della storia. Lo Yemen è una realtà che vive di carestia, di colera, di malattia, di scarsità di acqua, di scarsità di farmaci, di mancanza di servizi sanitari e di base. Lo Yemen è una realtà in cui muoiono giornalmente bambini, uomini e donne sia per la guerra, sia per le malattie, sia perché spesso viene impedito ai soccorsi di arrivare nelle zone di emergenze. Tutte le parti impegnate nel conflitto armato in corso hanno commesso crimini di guerra e altre gravi violazioni del diritto internazionale, in un contesto in cui mancavano strumenti adeguati di accertamento delle responsabilità in grado di assicurare giustizia e riparazione per le vittime. La coalizione a guida saudita, intervenuta a sostegno del governo dello Yemen internazionalmente riconosciuto, ha continuato a bombardare infrastrutture civili e a compiere attacchi indiscriminati, uccidendo e ferendo i civili. Le forze dell’alleanza militare formata dagli Huthi e dalle truppe vicine all’ex presidente Saleh (huthi-Saleh) hanno bombardato indiscriminatamente aree abitate da civili nella città di Ta’iz e lanciato attacchi indiscriminati di artiglieria pesante ol­tre il confine con l’Arabia Saudita, provocando morti e feriti tra i civili. In questo contesto di violenza generalizzata le donne e le ragazze hanno continuato ad affrontare una radicata discriminazione e altri abusi, come matrimoni forzati e precoci e violenza domestica. Le divisioni interne allo Yemen e la frammentazione del controllo sul territorio sono diventate ancor più radicate con il protrarsi del conflitto armato. Le autorità dell’alleanza huthi-Saleh hanno mantenuto il controllo su vaste aree del paese, compresa la capitale Sana’a, mentre il governo del presidente Hadi controllava ufficialmente il sud del paese, compresi i gover­natorati di Lahj e Aden. Da sottolineare è il decesso di Ali Abdullah Saleh che il 4 dicembre è stato ucciso dalle stesse forze huthi, che hanno così consolidato il loro controllo su Sana’a. Saleh è salito al potere nel 1978 inizialmente come presidente dello Yemen del Nord, stato indipendente fino alla riunificazione con lo Yemen del Sud dopo una lunga guerra civile. Governò lo Yemen unito fino a che non è stato costretto a lasciare l’incarico nel 2012 durante le proteste e lo scoppio di una nuova lotta civile nel 2011. Lo scontro è stato interpretato da alcuni commentatori con un fronte a guida della tribù Huthi (a maggioranza Zaidita, vicino allo Sciismo) contro il fronte delle tribù sunnite. Nel 2015 è intervenuta l’Arabia Saudita che ha mosso guerra contro gli Huthi. C’è chi ha fatto notare che l’Arabia saudita è governata da una famiglia facente parte del terzo gruppo religioso del paese, ovvero i Wahabiti (sunniti) che rappresentano il 29% del paese, con al primo posto i sunniti non wahabiti che rappresentano anche loro il 29%. Il problema consisterebbe nel fatto che il secondo gruppo è rappresentato da gruppi vicini allo Sciismo e che si dividono in due gruppi stanziati uno sui giacimenti di petrolio del golfo persico e l’altro al confine con lo Yemen, quindi al confine con gli Houthi (che sono stanziati nello Yemen del Nord). La paura quindi consisterebbe nelle pressioni geopolitiche dell’Iran e nella paura di perdere potere nella regione. Durante il conflitto, l’Arabia Saudita ha più volte accusato l’Iran di finanziare con armi e denaro gli Huthi.  Tramite il proprio consiglio politico supremo, l’alleanza huthi-Saleh ha assunto, nelle aree sotto il suo controllo, le funzioni e le responsabilità dello stato. Queste comprendevano la formazione di un esecutivo, la nomina dei governatori e l’emanazione di decreti ministeriali. La situazione si è ulteriormente frammentata quando, a maggio 2017, il governatore di Aden, Aidarous al-Zubaydi, e Hani bin Brik, un ex ministro di stato, hanno formato un consiglio di transizione del sud, composto da 26 membri. Il nuovo consiglio, che ha espresso l’intenzione di creare uno Yemen del Sud indipendente e che godeva del favore della popolazione, si è riunito in varie sessioni, stabilendo la propria sede nella città di Aden. Il protrarsi del conflitto ha portato a un vuoto politico e alla mancanza di sicurezza e ha creato terreno fertile per il proliferare di gruppi armati e milizie, che avevano il sostegno di altri stati. Alcune di queste forze erano addestrate, finanziate e supportate dagli Emirati Arabi Uniri e dall’Arabia Saudita. La frammentazione tribale e territoriale dello Yemen ha avuto la conseguenza che molti capi tribù hanno sposato la causa di Al Qaeda, infatti si rilevano numerosi casi di terrorismo e ciò rende ancora più complessa la realtà del conflitto. Il gruppo armato al-Qaeda nella penisola araba (Aqap) ha mantenuto il controllo di parte del sud dello Yemen e ha continuato a com­piere attentati dinamitardi nei governatorati di Aden, Abyan, Lahj e al-Bayda.

Aree di controllo a dicembre 2017

     Durante l’anno non sono stati compiuti passi avanti nei negoziati politici o verso una cessazione delle ostilità. Mentre nelle aree circostanti le città portuali di Mokha e Hodeidah proseguivano le operazioni militari e i combattimenti, tutte le parti in conflitto si sono rifiutate di partecipare al processo guidato dalle Nazioni Unite, in tempi diversi a seconda delle conquiste militari ottenute sul terreno. Secondo l’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, dall’inizio del conflitto armato, a marzo 2015, fino ad agosto 2017, erano stati uccisi 5.144 civili, di cui almeno 1.184 bambini, mentre più di 8.749 erano rimasti feriti. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Office for the Coordination of Humanitarian Affairs – Ocha) ha stimato che più di due terzi della popolazione necessitava di aiuti umanitari e che almeno 2,9 milioni di persone erano state costrette a fuggire dalle loro abitazioni. Il Who ha dichiarato che i sospetti casi di colera causati dalla mancanza di acqua potabile e dall’impossibilità di accedere a strutture mediche erano più di 500.000. Dall’insorgenza dell’epidemia nel 2016, i decessi a causa dell’infezione sono stati quasi 2.000. Il protrarsi del conflitto è stato uno dei fattori che avevano maggiormente contribuito alla diffusione del colera nello Yemen. Di fatto il paese più ricco del mondo arabo, l’Arabia Saudita, è in guerra con il paese più povero. Dall’inizio del conflitto lo Yemen, con una popolazione di 25 milioni di abitanti, è stato sostanzialmente distrutto. Le Nazioni Unite hanno rilevato passo passo la portata della tragedia che vede la morte di più di 20mila persone, di cui almeno la metà civili. Il numero dei feriti non può essere precisato perché metà gli ospedali e centri medici dello Yemen non sono operativi. Questo significa che non è possibile stabilire quante persone si sono presentate per farsi curare. Per i sopravvissuti la vita non è facile. È come se per loro il tempo si trascinasse senza senso, in una guerra senza fine. Il dolore aumenta. Vecchie malattie riappaiono e anche la fame. La maggior parte della popolazione non ha quasi accesso ad acqua, cibo, prodotti per l’igiene, raccolta dei rifiuti. Sette milioni di yemeniti, tra cui 2,3 milioni di bambini con meno di cinque anni, sono costretti alla fame. Le Nazioni Unite sono riuscite a raccogliere appena il 43 per cento dei fondi necessari per la crisi umanitaria. Gli Stati Uniti hanno versato 1,9 miliardi di dollari, ma si tratta di una minima parte della cifra che l’industria degli armamenti americana guadagna vendendo armi all’Arabia Saudita, rifornendola mentre bombarda lo Yemen e affama i suoi abitanti. Ma il fenomeno della vendita di armi riguarda anche il nostro paese. Amnesty International denuncia che dall’Italia continuano a partire carichi di bombe aeree per rifornire la Royal Saudi Air Force. L’ultimo carico, con migliaia di bombe, è partito in gran segreto da Cagliari. L’associazione ritiene che si tratti anche questa volta di bombe aeree del tipo MK80 prodotte dalla RWM Italia, azienda del gruppo tedesco Rheinmetall, con sede legale a Ghedi (Brescia) e fabbrica a Domusnovas in Sardegna. La conferma dell’utilizzo delle bombe italiane nel conflitto in Yemen arriva anche dal “Rapporto finale del gruppo di esperti sullo Yemen”, trasmesso il 27 gennaio 2017 al Presidente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Alcune organizzazioni specializzate, riportano la possibilità concreta di almeno sei invii di carichi di bombe dall’Italia verso l’Arabia Saudita. Nell’ottobre 2016 l’allora Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni per la prima volta ammetteva, in risposta ad una interrogazione parlamentare, che alla RWM Italia sono state rilasciate licenze di esportazione per l’Arabia Saudita. La responsabilità del rilascio delle licenze di esportazione ricade sull’Unità per le Autorizzazioni di Materiali d’Armamento (UAMA), incardinata presso il Ministero degli Esteri e della Cooperazione e che fa riferimento direttamente al Ministro. Ma nel percorso di valutazione per tale rilascio incidono con ruoli stabiliti dalla legge i pareri di vari Ministeri, tra cui soprattutto il Ministero della Difesa. Va inoltre ricordata la presenza di un accordo di cooperazione militare sottoscritto dall’Italia con l’Arabia Saudita (firmato nel 2007 e ratificato con la Legge 97/09 del 10 luglio 2009) che prevede un rinnovo tacito ogni 5 anni, e grazie al quale si garantisce una via preferenziale di collaborazione tra i due Paesi in questo settore, comprese le forniture di armi. La legge italiana 185 del 1990 che regolamenta questa materia afferma infatti che le esportazioni di armamenti sono vietate non solo come è già automatico verso le nazioni sotto embargo internazionale ma anche ai Paesi in stato di conflitto armato e la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione della Repubblica. Il 22 giugno 2017, l’associazione ha presentato una proposta di Mozione parlamentare alla Camera insieme ad alcune organizzazioni e reti della società civile italiana. Il 19 settembre 2017, con 301 voti contrari e 120 a favore, la Camera dei deputati ha respinto la mozione che chiedeva al governo di bloccare la vendita di armi a paesi in guerra o responsabili di violazioni dei diritti umani come disposto dalla legge 185/1990, dalla Costituzione italiana e dal Trattato internazionale sul commercio delle armi.

Amnesty International chiede al governo di intraprendere un percorso nuovo nella difesa dei diritti umani e del rispetto del diritto internazionale sospendendo l’invio di materiali militari all’Arabia Saudita, come fatto recentemente dalla Svezia.

Per partecipare alla raccolta firme di Amnesty International “clicca qui

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