Myanmar: Amnesty International accusa il gruppo armato Rohingya di stragi civili

24 Maggio 2018
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Bina Bala, a 22-year-old woman who survived a massacre of Hindu villagers by the armed group, Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) on 25 August 2017. She is pictured in Kutupalong refugee camp in Bangladesh in September 2017, where she was briefly before being returned to Myanmar in October 2017.

Una ricerca condotta da Amnesty International nello stato di Rakhine, in Myanmar, ha rilevato che “L’Esercito di salvezza dei Rohingya dell’Arakan” (Arsa) è responsabile di almeno un massacro che conta almeno 99 persone tra uomini, donne e bambini indù e di ulteriori uccisioni illegali e di rapimenti di civili verificatisi nell’agosto 2017. L’Arsa è un gruppo di insorti Rohinghya che il Comitato Centrale Anti-Terrorismo del Myanmar ha dichiarato essere un gruppo terroristico il 25 agosto 2017 in conformità con la legge antiterrorismo del Paese. Il governo birmano ha affermato che il gruppo è coinvolto e finanziato da islamisti stranieri, nonostante non ci siano prove certe che dimostrino tali accuse. L’Arsa ha rilasciato una dichiarazione il 28 agosto 2017 in cui ha definito le accuse del governo come “infondate” e sostenendo che il suo scopo principale è quello di difendere i diritti dei Rohingya. La ricerca, svolta sulla base di interviste e analisi condotte da antropologi forensi, risponde al bisogno di fare luce sulle violazioni dei diritti umani, sottovalutate, commesse dall’Arsa. La brutalità delle azioni ha avuto un impatto indelebile sui sopravvissuti e Tirana Hassan, direttrice di Amnesty International per le risposte alle crisi, ha sottolineato che occorre “chiamare a rispondere i responsabili di quelle atrocità, è fondamentale tanto quanto farlo per i crimini contro l’umanità commessi dalle forze di sicurezza di Myanmar contro i civili Rohinghya”.

Il massacro di Kha Maung Seik

Erano le 8 di mattina del 25 agosto 2017 quando l’Arsa ha attaccato la comunità indù che viveva in una parte di una serie di villaggi nella zona chiamata Kha Maung Seik. Qui gli indù vivevano in prossimità dei villaggi della comunità musulmana Rohinghya e della comunità prevalentemente buddista rakhine. Uomini armati vestiti di nero e Rohinghya in abiti civili hanno rastrellato decine di uomini, donne e bambini indù, li hanno depredati dei loro averi e li hanno condotti bendati fuori dal villaggio. Dopo aver separato le donne e i bambini dagli uomini, i militanti dell’Arsa hanno ucciso 53 persone, a iniziare dagli uomini. Otto donne e otto dei loro figli sono sopravvissuti dopo che l’Arsa ha obbligato le donne a convertirsi all’Islam. Le 16 persone sono state poi obbligate a seguire i combattenti in Bangladesh e sono state rimpatriate nell’ottobre 2017 con il coinvolgimento delle autorità di entrambi i paesi. I sopravvissuti hanno riferito di aver visto parenti uccisi o di aver sentito le loro urla, di aver visto gli uomini sgozzati mentre venivano intimati a non guardare, di aver visto i combattenti dell’Arsa tornare indietro col sangue sulle spade e sulle mani, di aver visto l’uccisione di donne e bambini. In molti hanno perso padri, zii e fratelli ma anche madri e sorelle che sono stati massacrati. Sono morti 20 uomini, 10 donne e 23 bambini, 14 dei quali non avevano neanche otto anni. Bina Bala, una ventiduenne sopravvissuta al massacro ha raccontato le violenze di quei momenti: “Avevano coltelli e lunghi cavi metallici. Ci hanno legato le mani dietro la schiena e bendati. Ho chiesto loro cosa avessero intenzione di fare e uno di loro ha risposto, nel dialetto Rohinghya: ‘Voi e i rakhine siete la stessa cosa, praticate una religione diversa dalla nostra, non potete vivere qui!’. Poi hanno chiesto di consegnare tutto ciò che avevamo e hanno iniziato a picchiarci. Io alla fine gli ho dato i soldi e i gioielli d’oro che avevo”. Nello stesso giorno i 46 abitanti del vicino villaggio di Ye Bauk Kyar sono scomparsi, la comunità indù locale ritiene che l’intero villaggio sia stato assassinato dall’Arsa. Sommando le vittime dei due massacri, il totale è di 99 morti. Inoltre, il giorno successivo, l’Arsa ha ucciso due donne, un uomo e tre bambini nei pressi del villaggio di Myo Thu Gyi, sempre nella zona. Durante l’ondata di violenza nello stato di Rakhine, decine di migliaia di appartenenti a comunità etniche e religiose sono state costrette a fuggire. Molti di loro sono rientrate nei loro villaggi, altre continuano a restare in rifugi temporanei poiché le loro case sono state distrutte o per il timore di ulteriori attacchi dell’Arsa.

Le violenze contro i Rohingya

Gli episodi di Kha Maung Seik hanno coinciso con una serie di attacchi condotti dall’Arsa contro una trentina di posti di blocco delle forze di sicurezza di Myanmar. Le forze di sicurezza hanno reagito avviando una campagna illegale e sproporzionata contro la comunità Rohinghya, fatta di uccisioni, stupri, torture, incendi di villaggi, affamamento e altre violazioni dei diritti umani che costituiscono crimini contro l’umanità. I peggiori episodi di violenza chiamano in causa specifiche unità delle forze armate, come il Comando occidentale dell’esercito, la 33ma Divisione di fanteria leggera e la Polizia di frontiera. Le forze di sicurezza si sono vendicate brutalmente nei confronti dell’intera popolazione Rohinghya dello stato di Rakhine con l’intento di cacciarla dal paese. Uomini, donne e bambini furono vittime di un attacco sistematico e massiccio, costituendo un crimine contro l’umanità. Nell’ondata di violenza contro i Rohinghya sono state riscontrate almeno 6 degli 11 atti che secondo lo statuto di Roma del tribunale penale internazionale, quando sono commessi intenzionalmente durante un attacco, costituiscono crimini contro l’umanità: omicidio, deportazione, sfollamento forzato, tortura, stupro e altre forme di violenza sessuale, persecuzione oltre a ulteriori atti inumani come il diniego di cibo e di altre forniture necessarie per salvare vite umane. Le forze di sicurezza di Myanmar, a volte con la collaborazione di gruppi locali di vigilantes, hanno circondato i villaggi Rohinghya nella zona settentrionale dello stato di Rakhine, uccidendo o ferendo gravemente centinaia di abitanti in fuga. Inoltre, persone anziane e con disabilità, impossibilitate a fuggire, sono state arse vive nelle loro abitazioni date alle fiamme dai soldati. I testimoni hanno raccontato che l’esercito di Myanmar, appoggiato dalla polizia di frontiera e da vigilantes locali, ha circondato il villaggio aprendo il fuoco su chi cercava di fuggire e poi ha incendiato sistematicamente le abitazioni. I medici incontrati in Bangladesh hanno dichiarato di aver curato molte ferite causate da proiettili sparati da dietro il che coincide con le testimonianze di coloro che hanno visto i militari sparare contro le persone in fuga. La mattina del 30 agosto i soldati sono entrati a Min Gyi, hanno inseguito gli abitanti in fuga fino alla riva del fiume e poi hanno separato gli uomini e i ragazzi più grandi dalle donne e dai ragazzi più piccoli. Dopo aver aperto il fuoco uccidendo decine di persone i soldati hanno diviso le donne in gruppi portandole nelle case più vicine. Poi le hanno stuprate e infine hanno dato fuoco a quelle e ad altre abitazioni. Il 3 ottobre Unosat (l’operazione satellitare della Nazioni Unite) ha dichiarato di aver identificato un’area di 20,7 kmq di edifici distrutti da incendi nelle zone di Maungdaw e Buthidaung a partire dal 25 agosto: un dato persino probabilmente sottostimato a causa della densa copertura nuvolosa del periodo. Un ulteriore esame dei dati forniti dai sensori satellitari è giunto alla conclusione che dal 25 agosto sono stati appiccati almeno 156 vasti incendi ma anche questo numero potrebbe essere inferiore alla realtà. Le immagini satellitari riprese prima e dopo gli incendi confermano le testimonianze raccolte, ossia che le forze di sicurezza hanno dato alle fiamme solo abitazioni o zone abitate dai Rohinghya. A Inn Din e Min Gyi vi sono ampie parti di territorio con strutture incendiate fianco a fianco ad abitazioni rimaste intatte. L’esame delle caratteristiche delle zone risparmiate dalle fiamme, incrociato con i racconti dei testimoni sulla diversa composizione etnica di queste ultime, conferma che sono state incendiate solo le zone dei Rohinghya. Le violenze di quei giorni hanno costretto oltre 693.000 rohingya a fuggire in Bangladesh, dove si trovano tuttora. A proposito Tirana Hassan ha precisato che “I feroci attacchi dell’Arsa sono stati seguiti dalla campagna di pulizia etnica condotta dall’esercito di Myanmar contro l’intera popolazione rohingya. La condanna dev’essere totale: le violazioni commesse da una parte non possono giustificare quelle commesse dall’altra. Ogni sopravvissuto e ogni famiglia delle vittime hanno diritto alla giustizia, alla verità e alla riparazione per l’immensa sofferenza che hanno patito”.

Le dichiarazioni da parte di Myanmar

La settimana scorsa, il rappresentante permanente di Myanmar presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha criticato alcuni stati membri per aver ascoltato “solo una parte” della storia e non aver riconosciuto la violenza dell’Arsa. In riferimento a queste dichiarazioni Tirana Hassan ha dichiarato che “Il governo di Myanmar non può accusare la comunità internazionale di essere unilaterale se non permette l’ingresso nello stato di Rakhine. L’esatta dimensione delle violenze commesse dall’Arsa resterà sconosciuta se gli investigatori indipendenti sui diritti umani, compresa la Missione di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite, non potranno avere libero e pieno accesso nello stato di Rakhine”. A questo proposito Amnesty International rinnova il proprio appello per fermare le violenze.

 

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