PERCHÈ QUELLO ERA IL CLIMA DEL ’68, POI CAMBIO TUTTO.

22 Agosto 2017
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“Come mai una tesi sulla Dottrina Mitterrand? Cerchi rogne?”. Una risata e poi un gesto con la mano, per farmi accomodare nel suo rifugio svizzero, un’abitazione elegante sulla riva del lago di Lugano. E’ il 2009 quando Giorgio Bellini accetta di farsi intervistare.

Apparso per la prima volta nelle cronache italiane in occasione del processo “7 Aprile 1979”, accusato di “concorso in associazione sovversiva”, il suo nome ritornerà sulle pagine dei giornali con l’apertura delle carte della STATI, dove viene menzionato insieme a Carlos “lo Sciacallo”. Contatti con il terrorista venezuelano ricostruiti anche della commissione Mitrokhin e che lui non negherà. Nel 1994, su richiesta della procuratrice svizzera Carla Del Ponte , Bellini verrà arrestato con l’accusa di aver collaborato in occasione dell’attentato alla Radio Free Europe e scarcerato qualche mese dopo per assenza di prove.

Oggi Giorgio Bellini si dedica allo studio delle foreste e dei sentieri di montagna del suo Ticino natale.

Dal Ticino al movimento di contestazione a Zurigo. Quale è stato il suo percorso?

Sono nato in Ticino, da una famiglia della classe media. I miei genitori avrebbero voluto che studiassi, magari ingegneria come mio padre, che si era laureato al politecnico di Zurigo, o giurispudenza per diventare avvocato, come avrebbe voluto mia madre. Io, però, decisi di non studiare. Non so perchè mi prese così. Iniziai le prime letture marxiste ed ero affascinato dalla figura dell’operaio, così iniziai l’apprendistato in fabbrica. Solo che molto presto mi resi conto che era una vita che non faceva per me e decisi di prendere la maturità. Erano gli anni ’60, gli anni in cui iniziò, un po’ per caso, anche la mia attività politica. Insieme ad un gruppo di ragazzetti come me, interessati dalla politica marxista ed un altro gruppo che aveva lasciato, per disaccordo, il partito socialista, fondammo “i giovani operai marxisti” o qualcosa del genere. Con il gruppo andavo spesso in Italia a sentire le riunioni della contestazione ed è lì che conobbi quei personaggi che in seguito divennero militanti di gruppi come Potop, BR, Autonomia, ad esempio Toni Negri, Oreste Scalzone, Piperno, ma allora erano solo dei giovani come me, che partecipavano alle assemblee e si interessavano di politica.

Non terminai la maturità e con l’arrivo del ’68 mi traferii a Zurigo. Inizialmente io e gli altri che si erano trasferiti come me eravamo visti come dei fannulloni, come dei giovani di belle speranze che erano andati lì con l’idea di un mondo un po’ più libero, più colorato. Insomma, eravamo degli alternativi.

E che cosa facevate lì?

Il movimento cominciò con le lotte operaie, formammo l’ “Assemblea autonoma degli operai di Zurigo”, anche se, a dire il vero, gli operai lì avevano una certa pace del lavoro. Dopo arrivarono i lavoratori del nord Italia che erano di estrazione comunista. Ci unimmo agli italiani per ragioni linguistiche e culturali. Poi si aggregarono alcuni, ma pochi, svizzero-tedeschi che erano un po’ interessati alla linea che difendevamo noi, che era una linea operaista, autonomista.. potere-operaista diciamo, “potoppista”. Lavoravamo per far conoscere quello che succedeva in Francia, in Germania, in Italia e viceversa: si pensava di poter mettere in ordine l’Europa. Era comunque qualcosa di molto spontaneo, ci si riuniva per parlare delle lotte operaie, si organizzavano anche delle azioni, tipo distruzione di vetrine, blocco del traffico..

Il gruppo girava intorno alla libreria nella quale lavoravo, dove raccoglievamo e vendevamo libri marxisti, con un certo tipo di riflessioni e poi anche libri di Toni Negri. Intorno alla libreria si formò anche una rete di “supporto logistico”, anche se parlare di rete logistica è forse troppo.. non era una cosa ben organizzata.. però davamo l’ospitalità, prima a gente che doveva scappare dall’Italia, inizialmente erano operai coinvolti in disordini. Più tardi c’erano, invece, persone che scappavano perché coinvolte, tra virgolette, nella lotta armata: gente delle Brigate Rosse, gente di Potere Operaio… La Svizzera aveva un po’ questo ruolo di primo passaggio, dato che si trova proprio nel centro dell’Europa e perché non c’erano lotte politiche molto radicali.

Vi limitavate ad ospitare i compagni?

Beh, è successo che avendo in giro questa gente, questi compagni come si diceva allora, si è capito che in Svizzera era facile procurarsi materiali e delle armi e quindi un po’ di questa roba è stata rubata, mandata in parte in Italia, in parte in Grecia, a volta verso la Spagna, insomma dove c’era necessita. Però questo non era un’attività molto organizzata: ogni tanto alcuni di noi che si occupavano del logistico, dell’ospitare la gente, facevanouna ricerca un po’ più sistematica, di questi materiali (ad esempio Morlacchi e Petra Krause, che poi furono arrestati), però direi che non era una cosa molto importante. Poi le autorità svizzere tedesche su queste cose erano molto severe, non transigevano. In Ticino erano un po’ più all’italiana, c’era più tolleranza; c’erano naturalmente i magistrati che dovevano assumere il loro ruolo in caso di infrazioni, però lo facevano senza troppo accanimento, perchè in quegli anni lì si era un po’ sotto l’influenza delle ’68, i magistrati, almeno in Ticino, erano persone che venivano da quell’esperienza.

Fino a quando è durata la vostra attività a Zurigo?

Quella fase si è concluse già nella prima metà degli anni ’70- Dopo molti gruppi si sciolsero e cpminciarono altre cose, il femminismo, ad esempio. Inoltre con l’espulsione, a causa della crisi del petrolio, di una grande fetta di operai italiani, il movimento diventò più un misto: si iniziò a parlare tedesco e non più italiano; a quel punto li non ci vedevamo più noi stessi come ticinesi ma come zurighesi, e portavamo avanti la lotta non più per salvare gli altri ma per salvare noi stessi, cioè capimmo, come diceva il femminismo, che il personale è politico e quindi ci unimmo al altri filoni di lotta, nei quartieri, contro il traffico e poi soprattutto sul nucleare. Lavoravamo soprattutto nei quartieri, nel Kreis 4 e 5 .

Il coordinamento diventò più effettivo soprattutto tra Svizzera, Germania e Francia mentre l’Italia rimase tagliata fuori perché era un paese che esprimeva ancora lotte di tipo tradizionale, mentre il nord europa aveva cominciato ad esprimere lotte del futuro: movimento antinucleare, movimento ecologista radicale, queste idee nuove ebbero un enorme peso ed è in questo senso che si intrapresero operazioni anche importanti. In Italia si rimaneva ancorati a vecchi schemi, era un mondo di interpretare la realtà tipico del movimento in Italia. Questo è abbastanza interessante: le inchieste sociologiche hanno evidenziato i cambiamenti di valore nelle diverse popolazioni e mi ricordo che soprattutto nella Svizzera tedesca in quegli anni li ci fu un cambiamento incredibile dei valori di riferimento, mentre per l’Italia rimasero abbastanza stabili.

Col tempo, poi, io mi allontanai dal movimento: il paradosso è che io lottavo per una maggiore libertà ed il movimento era il posto in cui mi sentivo meno libero; li ti senti sempre sotto pressione, una situazione che mi ha portato a dire e fare cose che non avrei realmente voluto dire o fare.

Il suo impegno nel movimento le è costato dei processi penali..

Sono stato arrestato la prima volta perché coinvolto nel processo 7 Aprile in Italia. Il mio nome fu fatto da Toni Negri: lui è stato uno dei primi che abbiamo ospitato quando ce n’è stato bisogno, poi ci ha ripagato mettendoci in mezzo nel processo sul 7 Aprile.

Quando fui arrestato a Monaco la Germania non concesse l’estradizione chiesta dall’Italia, perché ero accusato di partecipazione a banda armata, che in Germania è considerato reato politico e la Germania non concede l’estradizione per reati politici. Sono comunque rimasto dentro un anno. A causa del processo per il gruppo 7 Aprile non sono più potuto tornare in Italia fino ad 2001.

L’ultima volta invece rimasi in prigione solo 3 mesi e mi dovettero anche pagare dopo. Questo accadde perchè con l’apertura delle schede della STASI venne fuori anche il mio nome, insieme a quello di Carlos. Con lui ci eravamo effettivamente conosciuti, lui mi chiedeva come procurare dei materiali per degli attentati che era facile trovare in Svizzera, ma niente di più. Le informative venivano dall’Ungheria dove Carlos era molto attivo ed anche tollerato, ma non era un uomo dei servizi, assolutamente. Venne accusato per una bomba alla Radio Free Europe di Monaco, in cui morì anche un uomo. Io, quando fui arrestato in Germania, mi trovavo proprio in un treno che passava anche per Monaco, in realtà stavo tornando da Norimberga, dove ero andato a vedere il museo dei giocattoli, ma la Carla Delponte collegò il mio viaggio da Monaco alle carte della STASI e sostenne che io mi ero recato a Monaco per organizzare quell’attentato con Carlos. Non furono trovare abbastanza prove neanche per formalizzare l’accusa e dovettero prosciogliermi. In quell’occasione venne a Berna il magistrato Bruguière dalla Francia, per sentirmi come informato dei fatti, perché inizialmente mi chiamarono a Berna per sentirmi, non per arrestarmi. Quando però mi trovai a Berna in vesta di inquisito non parlai, come di solito faccio, perché non era più considerato solo uno informato, ma un complice. Ci sono quei magistrati come Bruguière a cui interessano persone come me in quanto informate, perché solo così puoi ricostruire i fatti ; poi ci sono quelli come la Delponte che non capiscono questa cosa e a cui interessa solo arrestare la gente subito.

Oltre all’atteggiamento dei magistrati, un punto controverso fu anche l’uso che si fece delle testimonianze dei pentiti..

Tra le dichiarazioni dei pentiti ci sono cose vere, so anche di cose false. Il problema è vedere se un sistema di giustizia può far condannare qualcuno in base a delle dichiarazioni e basta. Ecco, e lì è la grossa anomalia italiana, anche se adesso è diventata di moda. Queste normative italiane hanno provocato degli effetti estremamente perversi, perchè bastava che uno accusasse altri e se la cavava. Beh senza ripetere sempre la stessa storia, però Savasta che era accusato di 17 omicidi, però accusando altri è uscito abbastanza in fretta, mentre altri che non avevano mai ammazzato nessuno come Sofri, che si è sempre rifiutato di chiedere la grazia, magari sono ancora dentro. In altri paesi questa anomalia è stata guardata con un certo sospetto, ma è finita ad inquinare anche altri ordinamenti. La Francia è forse il paese che ha detto più chiaramente no a questa prassi. Poi non è che loro siano molto meglio, comunque! Poi ci fu la cosiddetta “Dottrina Mitterrand” che era sostanzialmente un accordo tra Mitterand e Craxi. Quest’ultimo era stato sempre più “liberale” sulla questione del terrorismo. Sapere di centinaia di italiani in Francia che potevano essere giudicati in Italia era un problema, quindi si misero d’accordo così.

Della lotta armata in Italia che idea si è fatto?

La lotta armata in Italia è un fenomeno chiaro, spiegato. In Italia c’è sempre stato un partito comunista forte, c’è stato un certo tipo di resistenza, ci sono state anche manifestazioni di stalinismo e queste cose hanno avuto il loro peso e possono servire almeno in parte a spiegare un fenomeno come le BR , soprattutto la piega che le BR poi han preso.

Ora, che dei movimenti armati o dall’intenzione di armarsi, siano nati all’interno di un movimento come quello del ’68 questo mi sembra assolutamente normale, non è un’anomalia, era “dans l’air du temps” e se ne parlava dappertutto. Non dimentichiamo che a quei tempi c’era Che Guevara, c’erano i palestinesi che cominciavano a fare le loro azioni, cioè sembrava che queste cose fossero possibili. Poi questo fenomeno aveva specificità proprie nei vari paesi: in Italia nella contestazione la parte operaia era molto forte, anche se gli studenti avevano il loro peso però la parte dell’operaio e proprio dell’operaio di fabbrica era estremamente importante e portava dentro delle tradizioni comuniste che hanno ereditato le BR. Mentre in altri paesi europei questa presenza era meno forte e meno importante. Poi c’ erano certamente dei cattivi maestri, Toni Negri ad esempio, ma anche Sofri. Le persone che li hanno ascoltati erano persone che hanno preso le armi e si sono poi rivolte in direzioni altre rispetto alle loro idee. Quindi può essere che uno come Negri, per salvare quello che era il suo progetto, la sua linea, abbia sacrificato quella manovalanza un po’ incontrollabile, che non aiutava alla sua causa. Se sia sceso a patti con i carabinieri non lo so, ma non mi sorprenderebbe.

Per quel che riguarda i servizi io credo che una strategia della tensione in Italia ci sia stata. Ora, qualcuno l’avrà pure organizzata, non lo so, posso immaginarmi che siano stati i servizi, però certamente era una strategia della tensione, non tanto gli opposti estremismi, perchè la lotta armata è venuta dopo e non so se i servizi abbiano proprio tollerato la presenza di gruppi armati, come si dice, probabilmente hanno un po’ sotto valutato la situazione dal loro punto di vista di garanti dello stato.

Della lotta armata italiana quello a cui tutti pensano è il sequestro Moro e quindi le Brigate Rosse. Di questo gruppo lei ha conosciuto il leader Moretti, cosa ci può dire a riguardo?

Moretti era un burocrate della lotta armata e parlava da vero stalinista. In realtà tutti gli scritti delle BR sembravano i compitini di una scuola elementare marxista!

Moretti aveva una paura tremenda delle possibili infiltrazioni, quasi una fobia. Il cambiamento delle BR con Moretti non lo attribuirei a lui, ma ad una tipologia di persone che confluirono nelle BR, specialmente dal ’77. Era, quello italiano un movimento operaio molto forte, molto comunista/stalinista che si unì poi ad una generazione di individui che “presero in mano una pistola, prima di prendere in mano un libro”. La decisione di uccidere Moro per esempio non venne da chi sa dove, venne dalla base delle BR che era stalinista e violenta. Noi tutti del movimento dicevamo a Moretti “ma dai, che volete di più, avete fatto un già un casino, dovreste essere più che soddisfatti, lasciatelo andare”, ma poi loro consultarono la loro base e presero quella decisione.

Tutti i tentativi, specialmente quelli fatti dalla Commissione Mitrokhin, di trovare qualche collegamento con i servizi dell’est sono solo dei teatrini. Su una cosa potrei mettere la mano sul fuoco: che le BR non fossero infiltrate o pilotate dai servizi dell’est. Ed il fatto che non avessero contatti neanche con i servizi italiani è mostrato dal fatto che fu mandato a Beirut, e si sa, il generale Giovannone per cercare contatti con i palestinesi al fine di trovare un canale con le BR. Fu messo a disposizione un aereo per i palestinesi, per andare a cercare qualcuno delle BR, ma neanche i palestinesi avevano contatti con loro. Infatti poi venne Carlos da me per chiedermi di metterlo in contatto con le BR.. Ovviamente ai quei tempi le cose erano più lente, non c’era il freccia rossa! Così nel frattempo Moro venne ucciso.

Comunque credo che sulle BR sia stato detto tutto, si sa tutto. Cercare connessioni, manipolatori sono solo degli alibi. Io non leggo più i giornali italiani dal dopo Moro, da quando direi tutti gli intellettuali, giornalisti dell’epoca che dopo il ’68 solidarizzavano con le persone del movimento arrestate, hanno cambiato totalmente campo ed hanno iniziato a condannare proprio coloro che fino ad un momento prima difendevano. Perché quello era il clima del ’68, poi cambiò tutto.

Intervista a Giorgio Bellini, Lugano 2009 – Prima pubblicazione in “Dottrina Mitterrand. Ideologia o Realpolitikk?”, Università di Trieste, 2009

Di Carla Melis

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